Antonio Pizzuto
Si riparano bambole
Bompiani, Milano 2010 IV edizione
( Lerici, 1960 – Il Saggiatore di A. Mondadori, 1973 – Sellerio, 2001 –
tradotto in Francia dalla Gallimard, On repare les poupees, 1964)
Alle dilette Palermo, Erice e Castronuovo di Sicilia
Si riceveva, ma il termine è un po’ ampolloso, ogni martedì,
con un giro di visite scambievoli che occupava l’intera
settimana tolte le domeniche. Era quindi possibile
ripigliare il discorso o rinviarne la trattazione al giorno
seguente là dove toccava rincontrarsi, senza bisogno di
riepiloghi: temi in verità semplici, monotoni. Raramente
ne formava oggetto qualcuna di loro, poiché se ne andavano
tutte insieme, verso le otto, lanciando dalle scale
inintelligibili frasi all’ospite affacciata. Trattavano in generale
argomenti di genealogia teoretica, di genealogia
pratica, per spiegarsi a vicenda chi era mai la tale, e con
chi maritatasi, l’età presunta deduttivamente. Qualche
gioiello modesto luccicava, i ventagli quando ne veniva il
tempo davano battendo sul petto rapide vibrazioni da
volatili starnazzanti. E sempre le stesse facce, addolcite
dalle velette e dalla penombra. Il giorno che comparve
quella signora ammutolirono come se interrotte in qualche
comunicazione segreta. E andatasene alle fredde accoglienze,
fu un subisso di esclamazioni indignate. Che
sfacciata, disse ciascuna, presentarsi così, senza invito,
ammettersi da sé fra loro, con le dicerie che correvano
sul suo conto. Ad Anna Sofia, la pianista che conosceva
ogni cosa su Rubinstain e Sciuma, ma era ignara di certi
fatti o non se ne interessava, tutto fu susurrato all’orecchio.
Terminata la costernazione ella cedette alle preghiere
e sonò la Marsce sovàge del maestro Floridia,
pezzo preferito da loro. Forse se ne immischiarono gli
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uomini: fatto sta che non la si rivide più. E forse cercava
una riabilitazione, entrata così sorridente, con tanto gusto,
con una gran cura di non farsi notare ed essere almeno
sopportata. Ma aveva le unghie a punta, sarebbe
bastato questo. E che viso molle, poi, non so: molle è la
parola esatta, sì, molle. Cose da narrare in un salotto di
persone per bene quelle? I negri della Nigeria, e come
poteva saperlo, che credono in un Dio abitante nei loro
boschi, e dove? “Chez lui”, rispondono. Un po’ di timor
di Dio non guasta. E fumava, forse. Doveva averne fatti
di viaggi, conosciute di genti. Quanto si sta bene nel proprio
paese e a non ingerirsi; e che cappellaccio. Fecero
cantare alla figlia di Adelaide I cappelli delle donne, satira
deliziosa. Accompagnava Adelaide, tempo due
quarti, ed il basso a stantuffo. Era l’unica bimba a frequentare
i loro circoli e tale canzoncina l’unica del suo
repertorio, sicché la assaporavano bene, agiva da riflesso
condizionato precedendo i primi sbadigli coi sottovoce
corretti da un risolino in ritardo. La signora Giovanna –
di solito era l’argomento più vasto, tale che altro non rimaneva
poi fuorché gli sfibranti commiati – si addentrò
nel convinto panegirico del marito. Ella beninteso si limitava
a ripetere quanto ne dicevano gli altri, nulla aggiungendo
di suo. L’avvocato. In città a dire l’avvocato
era di lui che parlavano. Andiamo dall’avvocato, è meglio
rimetterci all’avvocato. Come se non ce ne fossero
altri, e bravissimi del resto; ma l’avvocato per antonomasia
significava il suo Giacomo, voluto unanimemente
bene, colui che vinceva le cause per l’affetto. Quando i
presidenti lo vedevano triste, il pensiero di procurargli
un dispiacere risolveva la lite. Al suo ingresso era attentamente
scrutato da tutti, e se passava un po’ mogio la
voce si diffondeva per le aule, ciascuno a preoccuparsene,
le parti avverse facendo qualche gesto eloquente da-
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vano con rassegnazione mandato ai loro patrocinanti di
non calcare troppo, di lasciar perdere se mai, purché il
viso di lui si rasserenasse. Gli avrebbero agitato campanellini
sotto gli occhi per farlo sorridere, come ai bimbi,
tanto era amato. Il primo presidente si alzava per stringergli
la mano, il procuratore generale, sì, lo stesso procuratore
generale sapeva farsi alcuni momenti meno
brutto. A un suo minimo cenno di voler parlare si ammutoliva:
nel silenzio assoluto subito fatto egli poteva
chiedere qualunque differimento ed era accordato. Il
ministro, all’inaugurazione della lapide, gli disse caro avvocato.
Ma bisognava vederlo nello studio. Uscito il
cliente egli gridava A chi tocca, e dall’anticamera gremita
veniva avanti un altro. Delle volte, in estate, egli ascoltandoli
a occhi chiusi, un po’ di sbieco, il gomito sulla
scrivania, pareva dormisse. Non interrompeva mai. Terminata
l’esposizione dopo qualche raccoglimento tendeva
la destra, era bastevole l’annuire per rinfrancare i più
incerti. Tutte già apparecchiate per andarsene, ad ogni
pausa facevano un passettino avanti, ma come durata
quelle uscite erano buone altre mezze visite. Abbandonata
la sala da ricevimenti attraversavano il salottino e il
salotto con l’altro piccolo pianoforte giungendo fra le ultime
ciarle nella stanza d’ingresso. La porta era spalancata,
ma ancora ce ne voleva. Poi nonna rifacendo il
cammino rassestava i cuscini, le poltrone e le poltroncine
rimosse; schiuso l’uscio di fondo dava per lo spiraglio
un’occhiata nello studio del nonno, dalle librerie fino al
soffitto. Ben altre conversazioni, qui, se vi era ammesso
qualche raro visitatore. Chi sarà stata la Pietra di Dante,
chi la donna di Giacomino Pugliese, chi Ciullo d’Alcamo,
e proprio Ciullo o non Cielo, e proprio d’Alcamo o
dal Camo, ed ebbe o non ebbe una sorella il Petrarca, lo
sarà stata veramente quella Selvaggia, o non forse una
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sorellastra, e Laura e – frattanto – la madre dei petrarchini?
Quante cadute da cavallo toccarono a messer
Francesco, come mai la gamba ferita era sempre quella
sinistra? E i campioni nudi e unti? Le carole di S. Tomaso?
Il nonno rimaneva tutta la giornata chiuso là, seduto
alla scrivania; il suo inchiostro era viola, con dentro un
pizzichino di zucchero, la carta di gran formato si copriva
di una scrittura bellissima un quinterno dopo l’altro,
fra pipate e consultazioni del Tommaseo e Bellini, i cui
in folio, con rilegatura bodoniana, non avevano requie
nello scaffale alla sua destra. A fronte aveva file di libroni
dai dorsi in pergamena. Talvolta, verso il tramonto,
passava dalla seggiola a una piccola poltrona, e lì alle
spalle era la Divina Commedia del Poletto, il Forcellini,
i tomi di un dizionario biografico. La finestra, alta, due
gradini di marmo per arrivarla, chiusa sulla piazza centrale
formicolante, ne attutiva il rumore. I tempi si facevano
più difficili. Quei ricevimenti una volta ne meritavano
il nome, presenti anche artisti scrittori qualche
generale. Il nonno faceva venire allora un maestro di
scherma per dirimere le possibili controversie, però non
lasciava la sua piccola biblioteca: se mai qualche privilegiato
vi era ammesso all’ultima ora, non beninteso dall’uscio
del salone, ma di soppiatto, attraverso la sala da
pranzo e i vicoli. Seduti di fronte a lui, armavano conversazione
chiedendogli consigli su qualche ricerca raffinata
e paziente: chi faceva il conto di quante volte il Petrarca
adoperò “leggiadro” nelle sue rime, chi di quelle
in cui Dante elise l’articolo innanzi a un nome, e nel
I canto dell’Inferno erano ben diciassette in non più che
quarantacinque terzine, oppure cornacchiare, grillare,
scoccoveggiare: la pentola grilla, il tegame grilla; come
mai l’Oppidum Munionis di Desiderio divenne Florentia,
et similia. Giunta l’ora eccolo venire a tavola ed era-
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no in nove: il nonno accanto alla nonna, dirimpetto la
primogenita, Marietta, i tre piccini fra lei ed il marito, le
due figlie nubili ai capi opposti; in più la cagnetta intenta
a annusare tutte quelle scarpe. Ritornava ai suoi libri
avanti che terminassero la frutta. Il campanello frattanto
col suo asmatico timbro dava l’annunzio delle visitine
serali, o Fabrizietto, cui era gradito il caffè, o Perrino, ed
al giovedì il maggiore Romano che dopo brevissima sosta
di cortesia proseguiva verso lo studio del nonno a interrompergli
il filo per le sue ricerche storiche. Veniva
talvolta Savoca il calzolaio, ignaro di lettere, e cercavano
di trattenerlo nella sala da pranzo, non infastidisse il
nonno con interminabili relazioni su certo gratuito patrocinio
del quale nessuno capì mai gran cosa e gliene
chiedevano tanto per distoglierlo dall’intento, ma senza
riuscirvi: dopo una sommaria risposta si levava avviandosi
impettito a riferire le ultime non desiderate notizie
al Professore. Dai giornali si apprese che l’ultima sera,
lasciatili, appena tornato a casa sua vi appiccò il fuoco e
morì nell’incendio con la sorella. Sparecchiata infine la
tavola vi era posta su la cagnetta a corrervi da una punta
all’altra secondo i richiami dei commensali rimasti ai loro
posti, o in mancanza impegnata a inseguire la propria
coda fra lo spasso di tutti. Il chiaccherio generale faceva
alzare le voci. Alle volte le tre sorelle scambiavano allusioni
con termini convenzionali per i tre bimbi; diceva
per esempio Marietta: Sai, Stella, di Grillsbeder? è finito
con Guerrazzi, là a Rotterdam, mi capisci? Pofi il primogenito
proclamava di aver capito, segno del contrario.
Era per prima la piccola ad addormentarsi, in grembo
della zia Beatrice che andava leggendo una pagina a
Pofi. Il secondogenito spariva sulle ginocchia paterne.
Quando il sonno era pieno li accoglievano i due divani,
addossati l’uno alla camera da letto dei nonni, l’altro al-
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la parete del primo salotto chiamato anticamera. Pofi si
rammentava dei compiti da fare. A quest’ora? Di qui un
pianto disperato. La madre lo prendeva in braccio, gli
mormorava soffia, le palpebre nella fissità dello sguardo
in passato remoto facevano un paio di prove, attecchivano.
E già, andatisene i visitatori, la conversazione languiva.
Ma ecco la porticina dello studio schiudersi, il nonno
venire avanti nel suo itinerario dalla scrivania al riposo
passando il minuscolo andito pieno di librerie, la stanzetta
di Stella, il varco dinanzi al terrazzino. Babbo, gli
dicevano le tre figlie appena arrivato, siedi un momentino
con noi. Egli sedeva nel divano con alle spalle la piccola
fulva addormentata. Ogni tanti giorni la nonna gli
somministrava in quel momento una misteriosa pillola
di aconito. Erano soste brevissime, ma non di tutte le sere,
secondo la dolce stanchezza dopo tante ore di lavoro,
stai ancora un poco, insistevano, ma egli scusandosi con
sorriso carezzevole eh, vorrei andare a dormire, e riprendeva
il cammino, la nonna appresso per metterlo a
letto. Seguiva il commiato della domestica, che si ritirava
nel camerino remoto, da basso al secondo salotto. Così
aveva termine la serata. Capelli da attorcigliare, bocce
con l’acqua per la notte, qualche battibecco fra Stella e
Bice, le prime valutazioni dei genitori circa gli sforzi per
recare i dormienti a letto, rompendone il sonno dolcissimo.
Venivano posti in piedi a occhi chiusi, guance e
orecchie di fiamma, braccini docili a levarsi per la svestizione.
Il papà apriva la marcia con Sefina in braccio, appresso
Ugo al collo di mamma, Pofi in retroguardia per
mano attaccato alla gonna, chino e barcollante come se
recasse una gerla. Dalla stanzetta di Stella, per l’altro
uscio, giungevano alla scala. Erano diciassette gradini,
uno scalpiccio interminabile fino al piccolissimo appartamento
lassù contro un mare di tegole. Il lumino sug-
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gendo olio rischiarava quei sonni ben percepibile nel silenzio
notturno. Di primo mattino il discendere a precipizio
per quella scala, cupi tam tam, la nonna già al lavoro.
Ella preparava tutto per il nonno tendendogli i
calzoni come due gallerie, gli annodava poi la cravatta,
né era trascurata l’arricciatura dei baffi, un assettarlo
metodico da scultore col mezzobusto. Frattanto il passo
pesante di mamma sugli scalini e quello leggero del padre.
Unica invisibile ancora era Stella, ultima a levarsi.
Tutti accompagnavano il nonno fino alla porta e, scomparso
dal pianerottolo, si andava ad aspettarne il transito
per l’androne dal terrazzino antistante la sala da pranzo
e l’anticamera. Chini sulla ringhiera vedevano giù il
cocchiere intento a governare i cavalli del padrone di casa.
Finalmente il cappello grigio spuntava, al varco con
un gesto era ricambiato l’inchino, nonno spariva e si correva
al balcone. Rieccolo ad attraversare la piazza dai
quattro frontoni tutti stemmi fontane e statue incamminandosi
verso l’Università fra le scappellate. Pofi alla
chetichella infilava lo studio; subito a destra, prima che
incominciassero gli scaffali, c’era un armadio a nicchia
nel muro, un armadio bislungo e altissimo rivestito di
carta da parato, con molte scansie, anche là libri. Egli si
alzava sulla punta dei piedi per afferrare la bottiglia di
rum donde venivano attinte al mattino le poche gocce
versate nel caffè per il nonno, ne traeva un sorso rimettendola
febbrilmente a posto con occhi esterrefatti; il negro
cinto di rafia lo fissava dopo l’operazione fino alla richiusura
dello sportello slabbrato. L’odore rimaneva
nell’aria, sui dorsi di pergamena vicini; quanto a lui, per
un pezzettino stava a distanza dai possibili accusatori. Sì,
perché fa male. Ma al nonno perché allora. E poi questo
male non arrivava. Quando infine arrivò esso giunse per
tutti e tre i piccoli imparzialmente. La febbre. Il medico
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di famiglia aveva baffoni grigi in giù, sguardo torvo.
Niente di arrendevole in lui; mai sazio di quanto gli spalancassero
le bocche, finiva col reclamare il cucchiaio
per abbassare la lingua: quello era il terrore. Si sgomberò
la sala da pranzo. Il letto per Pofi fu posto lungo la
parete contigua alla camera dei nonni, quello di Sefina in
diagonale, Ugo nell’angolo fra loro. Scientificamente la
malattia si chiamava febbre infettiva. Latte senza fine.
Nelle ore dei pasti i piccoli infermi vedevano spuntare
dal corridoio la fantesca con le vivande dirette, attraverso
l’andito lastricato di marmo, alla camera prossima ove
si desinava. Un segno che essi andavano migliorando lo
diede il loro annasare al passaggio delle pietanze. Che almeno
potessero divorarle con gli occhi, mangiasse davanti
a loro la mamma, aria di sommossa, città dei vespri,
Pofi sedizioso, cedere, un tavolino e la sedia furono
collocati nel mezzo della stanza nuda. Lì si apparecchiò
per la mamma. Ella sedeva senza guardarli, era miope, e
tutta imbarazzata inghiottiva. I loro cupidi occhi seguivano
ogni boccone, le sorsate di vino rosso con l’acqua,
la bianca gola spiegata. Dai vertici del triangolo venivano
nel silenzio sospiri. Nessun commento. Nessuna parola.
Soltanto ingoiavano a vuoto. La donna sparecchiava,
tavolino e sedia erano portati via. Alle ore assegnate
si riproducevano gli armeggi per indurre i tre stoici a
prendere il latte. Uno dopo l’altro la mamma, il babbo,
nonna, zia Beatrice, e perfino la zoppicante Stella talvolta,
incominciavano il giro dei lettucci, con i vari argomenti
dai persuasivi ai minacciosi, motti scherzevoli, il
bicchiere appannato dagli ondeggiamenti respinto, respinto,
respinto, fra lacrime gemiti labbra strette occhiacci.
Trascorsi i primi tentativi, ciascuno faceva la sua
offerta. Già Pofi aveva una monetina d’oro. Dietro l’offerente,
chino col biglietto nuovo di zecca fra le dita, c’e-
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ra sempre altra mano a reggere il calice come un doppiere
e si andava e veniva. Anche la servetta finiva per intromettersi.
Giunti presso la piccola fingevano di contendersi
una bibita prelibata e preziosa. Il cagnolino
interpretava tutto l’andirivieni come a sé dedicato, saltando
abbaiando scodinzolando. Suvvia. Presto. Un sorsettino
solo e poi basta. Non ce n’è più. Allora gli occhi,
ogni giorno più grandi e più gravi, sogguardavano nella
vetrina le bottiglie impassibili, schierate come suore.
Febbre infettiva. Di settenario in settenario. Il terzo settenario.
L’ultimo settenario. Messi a letto lo stesso giorno,
insieme ne uscirono. Stentavano a reggersi in piedi.
Costeggiarono le spalliere aggrappandovisi. La pelle
andò via a strisce. Veniva fuori quella nuova lucente. Il
primo pollo arrosto, secondo il dottore da masticare ben
bene, a piccoli bocconcini, senza fretta. Pane. Ancora
pane. Dell’altro pane. La sala da pranzo fu riattata. Al
mattino vi si presentava la lavandaia, donna Caterina,
vecchia, occhialuta dopo l’operazione di cateratta, con i
sacchi della biancheria lavata nel fiume, biancoazzurra e
odorosa. Le pratiche di riconsegna venivano fatte personalmente
dalla nonna e duravano a lungo, poiché se i
fazzolettini annotati erano diciannove e quella ne presentava
diciotto, prima di passare oltre bisognava frugare
sino al ritrovamento. Interminabili elenchi. Poi il conto.
Diciannove per quattro. Se fossero dieci, quaranta.
Venti, ottanta. Meno quattro, settantasei. Ventuno per
quindici. Il vinaio. Sedeva, barile contro la pancia; come
il fiotto giungendo al collo del fiasco faceva cromatismo,
pronta la domestica ve ne sottoponeva un altro. L’odore
si diffondeva per l’anticucina. Delle volte si presentava
un uomo nuovo, segno che il fornitore aveva da fare con
la giustizia. Forse perché era un mafioso. Certo è che
parlava poco, e poi quel suo risolino, quegli occhietti
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furbi, e grassotto, sempre con gli anelli, sempre sbarbato
a dovere. La donna grattugiava, pestava il pepe nel
mortaio, o giungeva l’allegro trotto delle uova sbattute.
Pofi sedeva al pianoforte, non quello del salotto beninteso,
l’altro meno buono dell’anticamera a suonare, sempre
in fa maggiore, marce di bersaglieri. Silenziosa la
stanza da pranzo. Egli varcava l’andito, dai due grandi
armadi a fronte incassati nei fianchi e pieni di provviste,
tutto guardingo. Il letto dei nonni sempre rifatto meticolosamente,
fino alla levigatezza assoluta, era intangibile.
Pofi toccò con la punta del dito la coperta tesa e magnifica
su cui neanche una mosca osava posarsi. Le
persiane socchiuse non lasciavano entrare che poca luce.
Là presso era la poltrona celeste. Qui contro le pareti
opposte i due canterani antichi addossati al parato azzurro,
scuri bassi e pesanti. Quello dalla parte del nonno
custodiva un cestello colmo di monete, bronzo ed argento,
gli astucci con i gioielli, la logora busta contenente
valori e, in pila infinita, le ricevute della società elettrica,
dalle origini ai nostri giorni; mentre i capaci cassetti
dell’altro, non chiusi a chiave, servivano soltanto per la
biancheria. Qui una lampada ad olio ardeva perennemente
sopra il marmo azzurrognolo innanzi l’effigie sacra.
Accanto si schiudeva l’inesplorabile recesso del sottoscala,
popolato di vesti appese. Non se ne conosceva il
fondo. Né c’era porta. Pofi si faceva forza qualche rara
volta addentrandovisi di un passo o due, con le mani stese
che non incontravano fuorché gonne sino a soffocarlo
da tutte le parti e ne veniva fuori affannato. Subito i
panni si richiudevano silenziosi nell’impenetrabile tenebra
mal violata. Nessuno vide mai occupato quel letto da
dormienti. Era come se i nonni passassero la notte seduti
nelle rispettive poltroncine ai pie’ di esso, una gamba
sull’altra, attenti per non smuovere i tappetini, gli sguar-
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di sui due crocefissi al barlume della fiammella assetata
e pavida. Nella cameretta contigua, simmetrica con lo
studio del nonno, opposto quanta era la larghezza del
frontone tutta passaggi invasi da librerie, stavano i lettini
delle zie, la specchiera a fronte, lo sgabello su cui era
posta certa piccola cassa col cagnolino imbalsamato.
Sulla cerata nera a lettere ricamate in rosso se ne leggeva
il nome, Darling. Anche lì nessuno. Ma provenivano voci
poco distanti; Pofi rasentando la buia scaletta giunse
nella stanza di Stella. La nonna e le zie vi stavano tutte
concitate contro il signor Albanese, che era piccolo e
mingherlino ma calmo come poteva esserlo l’uomo cui il
padron di casa concedeva pieni poteri: autorità emanata
non dal proprietario semplicemente, da signore che soprattutto
era un nobile. Ricco, ce n’erano tanti, ricco e
nobile, cavaliere per stirpe, sua moglie di famiglia ducale,
mondo inconoscibile per gli estranei, e dove nessuno
si intendeva di fabbriche, sicché il signor Albanese godeva
una piena fiducia. Andava e veniva, su, giù, dalla
mattina alla sera per tutto il palazzo a escogitare lavori.
Sua idea fissa era la luce. Apriva occhi di bue, fori, varchi,
qua a forma di losanga, qua di trapezi. Lo si incontrava
in posti impensati, e là ove soffermatosi traeva di
tasca il metro giallo si poteva star certi che al mattino appresso
due muratori farebbero calcinaccio. L’appartamento
in cui egli compariva più raramente era proprio
quello, per le ostilità che vi si aspettava; ma a termine del
ciclo era pur mestieri farvi una capatina. Così il palazzo,
anche mantenendo lo stile dei tre rimanenti, era nelle
parti sue meno viste tutto escrescenze, aggiunte abusive,
e ricco di feritoie e di vuoti. In quel momento egli pretendeva
aprire un bel tondo nella parete per illuminare
la contigua scaletta. Già la piccola stanza aveva tre sbocchi,
l’uno verso quella da pranzo, il secondo verso lo stu-
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dio del nonno, il terzo verso la camera delle zie: tre usci
da chiudere quando Stella sedeva alla sua specchiera ritirandosi
poveretta in segreto; già troppi questi, senza
contare la finestra opposta al balcone del salottino. Figurarsi
se avrebbe permesso al signor Albanese di attuare
il suo più recente piano. Egli stava immobile, con il
cappello di paglia fra le dita, un lacrimone di calce sul dignitoso
vestito nero. Come succedeva un’altra nell’apostrofarlo,
si volgeva cortesemente a guardarla; di quando
in quando una misurata risposta, sempre col garbo dovuto.
E dall’anticamera gli arpeggi del pianoforte. Il signor
Albanese con moto da bilanciere richiuse la canna.
Lo seguirono tutte e tre, anche Stella, avvivando il ritmo
delle proteste. Il cane gli abbaiava. Egli varcò l’andito
sonoro che dava nella stanza da pranzo. Qui Stella prese
congedo. Sempre col suo seguito, riverì al passaggio la
sonatrice, che a dir vero non se ne accorse. La porta di
casa si chiuse alle sue spalle. Ma Pofi la riaprì furtivamente.
Subito c’era un primo gradino. Poi il pianerottolo
dell’appartamento contiguo. Un altro gradino. Altro
pianerottolo, l’altro appartamento. A sinistra la prima
fughetta della scala. Ancora due gradini. Nuova fughetta,
appena più lunga ed al buio. Il signor Albanese era
fermo lì. Valutava con sguardo da oculista la cieca parete.
Rimuovere il cristallino, operazione da poco. Un
buon romboide, mehr Licht, pur senza indebolirla. Con
due salti leggeri Pofi lo raggiunse. Gli sorrise; la lacrimuccia
scacciata si fece strada sulla gota paffuta. Non
meno buia era giù in fondo all’androne la scuderia. Lungo
l’andito stavano le carrozze a stanghe levate. Mai in
riposo le orecchie, all’approssimarsi di qualcuno i cavalli
volgevano la testa dalla mangiatoia. Sulle mura scabre,
appena discernibili alla poca luce filtrante dalle inferriate
alte, erano appesi finimenti, le fruste bianche e corte-
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si. Un tocco di campana. Il portinaio appariva col viso in
su nella corte. Sporgendosi un cameriere dalla ringhiera
sottovoce gli trasmetteva l’ordine di attaccare. Una delle
carrozze tratta fuori rotolava silenziosamente in mezzo
all’androne seguita dai cavalli condotti per la cavezza fra
il risonare pacato dei loro ferri. Cocchiere e famiglio imponevano
pettorali e tirelle, a poco a poco ciò che era
appena imbastito diveniva saldo ed efficiente. Pietro sedeva
a cassetta con l’alto cappello lucente ornato di coccarda,
il piccolo rimaneva in attesa presso lo sportello
aperto. Da quel momento, ad avventurarsi per le scale,
poteva apparirvi la signora. I gradini erano di porfido.
Dapprima una fuga di venti o ventidue, dritta fino all’arco
dai vetri multicolori: era come una cascata di marmo
rosso e lucente fra il biancore delle pareti. In cima, sulla
sinistra, la nicchia con una statua muliebre che reggeva
pel gambo un lume. Su pel ripiano tasselli marmorei formavano
intarsiandosi certo ornato di dolci curve intorno
ad un centro bianco; di contro, per un’apertura invetriata
larga quanto la scala ed alta, scorgevasi un inaccessibile
terrazzino incassato fra mura e pieno di piante, onde
proveniva luce nello scalone, che piegava là a destra
con una fuga più breve sormontata dalla seconda statua
nuda con fiaccola. Tre gradini ancora nel medesimo senso,
un nuovo ripiano simile, l’angolo più buio, cui la luce
giungeva dalla successiva ultima fuga, pure in penombra
quando non erano accese quelle lampade. A
sommo, occupando il lato sinistro del pianerottolo, l’immensa
porta bruna degli appartamenti padronali. Le visite
erano preannunciate dalla campana, un tocco per i
signori, due per le signore. Trovavano spalancato il battente,
col cameriere in livrea, panciotto giallo a strisce
nere, là sulla soglia; e si scorgeva parte del gran vestibolo,
scuro come gli attaccapanni e le cassapanche massic-
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ci, coperti di soprabiti cappelli bastoni frustini. Dal soffitto
altissimo pendeva un lampadario in cristallo e ferro
battuto. La luce del giorno scialba entrava dal balconcino
aperto sul sottostante androne. E dirimpetto alla porta
il bel finestrone dai vetri colorati, a piombo sul terrazzino.
Nel porfido era ripetuto due volte l’ornato dei
precedenti ripiani; al centro della parete ancora una nicchia,
l’ultima statua lucifera. Così terminava lo scalone.
Il seguito, sempre volgendo a destra, di là da una cornice
di legno che lo nascondeva, era in lavagna: prima una
fuga e sul ballatoio due porte, l’una adducente alla scala
di servizio, l’altra a terrazzi e logge del padrone di casa.
E poi sulla destra tre gradini, poi la fughetta ove Pofi
cercava di sorridere al signor Albanese. Questi lo guardò
appena e riprese le sue misure. Né i muratori tardarono
a premere il campanello; ma essendo invincibile Stella,
dovettero contentarsi di scoperchiare il soffitto della sala
da pranzo. La luce entrava abbagliante. Si camminò
frantumando calce. Sostituirono travi. Incannucciarono.
Cantavano inerpicati sul palco. Uno di loro, Ignazio, si
ferì. Gridava. Lo trassero in braccio. Fu trasportato all’ospedale.
Venne quella volta il padron di casa. Aveva
gli occhi celesti, i baffetti bianchi arricciati, pancetta, e
che bel vestito. Ecco un gentiluomo dell’aristocrazia, e
ricchissimo. Non si dava arie, ed era marito di duchessa
lui semplice cavaliere, ma che vuol dire, e quanti feudi,
andava a Baden Baden, anche al circolo dei Nobili, dove
non può penetrare che un nobile. Come sarà fatto. Che
faranno là dentro. Quanti camerieri e saloni, poltrone e
divani e tappeti e specchi e lampadari e statue, pitture, vi
si può perfino pranzare, e tutti in silenzio o a bassissima
voce. Perché mai gridare. Quell’uomo dai bei capelli
candidi, rotondetto, benevolo, era il padrone di tutto:
dovunque si dirigesse pei labirinti scale anditi dell’anti-
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co palazzo, le stesse mura sembravano fargli largo. Talora
indugiava presso il portone, verso mezzogiorno o verso
sera, pronto al sorriso con Pofi, pieno di riguardi col
nonno che ne teneva la mano, come sta professore, e
questo birichino studia? Studia, piccino, diventa come il
nonno, piccino caro. E il nonno che non sapeva rispondergli,
e meglio così che parlargli di cose tanto sconvenienti,
confessarsi del tutto ignorante circa i cavalli, essere
stato soltanto sul somaro da giovane, e non saper
guidare, o che vergogna, un calesse. Finiva con dei versi
latini, sempre esilaranti per il cavaliere o, peggio, ne magnificava
le splendide collezioni di ventagli. Pofi certe
mattine era accompagnato a scuola da Giulia, una volta
col cielo buio e la pioggia dirotta, e si aprivano appena i
negozi, rischiarati dalle fiammelle del gas tanta l’oscurità,
una volta poi nel profumo delle tuberose disposte
fuor dei portoni dove c’era un fioraio. Entrava nella cartoleria
di lusso presso il palazzo, a comprarvi la carta sugante
azzurra due pennini ottantuno e, sempre, una tavola
pitagorica, alto quanto il banco. L’aria vi sapeva di
resina e menta. Quei flaconi di colla arabica ambrati ed
impennacchiati, le bottiglie giganti di inchiostri fini, verdi
neri rossi, profumati, quelle piccole a cupoletta, i lapis
esagonali color ciliegia col nome in oro, e di numero due
per giunta. I magri acquisti venivano riposti nella cartella
a forma di biondo zaino; e con rincrescimento si usciva
da quel paradiso. Ma poco oltre, al passaggio, un’altra
meraviglia: la grande bottega della gomma esalante
anice e albicocche, i linoleum distesi sui cavalletti, nella
vetrina una mostra sempre diversa di cose affascinanti.
Su, andiamo, gli diceva Giulia. E l’emporio più in giù.
Di là dai cristalli apparivano qui tutta una camera da letto,
con libri ben rilegati sui comodini, appresso il bagno
luccicante, e non vi mancavano né saponette né asciuga-
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mani, e lo studio dalla scrivania bella, ornata di penne e
matite, la sala da pranzo con sulla tavola una vasca di pesciolini
rossi, e Giulia a tirarlo, egli a scansarsi. Arrivavano
sempre tardi. Al limite dell’androne Pofi alzandosi in
punta di piedi la baciava, e c’era contro il pilastro uno
specchio semilunare con dipintivi in rosso due asinelli e
la scritta: Siamo in tre. Egli si inoltrava, solo, per il viale
cinto di un bosso che occultava asparagi cari alle maestre.
In fondo, sotto al baldacchino, era sempre immobile,
con i cavallini e le altre figure coperti di tela, il gran
carosello. E dinanzi stava quel sedile donde tutti erano
osservati dal direttore, che pigliava posto fra il direttore
didattico e il segretario. Qual paura incuteva, costantemente
accigliato, i baffi in giù, l’insostenibile sguardo, il
vocione, il pancione, la maestosa pinguedine della gola
fra tutti quei colli così esili e scanalati alla nuca. Dalle
porte aperte sul viale le aule apparivano tutte scure nella
gran luce; giungevano le sillabe gravi discorsive dell’insegnante
invisibile. Nel refettorio dalle mense bassissime
di marmo, ove a centinaia i bimbi sedevano
rumorosi dinanzi il panierino svelante le tenerezze materne,
tutti ammutolivano. Il direttore. Il direttore. I suoi
detti, venendogli meno il fiato dirupavano disperdendosi
in cavernosi bassi a viso congestionato. In fondo era il
palcoscenico. Correva voce che per estreme mancanze vi
fosse il castigo estremo, venire rinchiusi nella buca del
suggeritore: uno confidava esservi stato cacciato dentro
una volta, e aver veduto Napoli, diavoli e imbarcazioni.
Finito il suo proclama, e andatosene, ecco le vocine rifar
capolino, ma per quella volta non tornavano come prima.
La campanella. Il ritorno alle aule classe per classe,
in fila. Un commerciante acquista quaranta sacchi di
zucchero a L 2,27 il chilo. Lo rivende a L 2,35. Si vuol
sapere quanto ha speso, quanto guadagna. E per prima
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cosa ciascuno masticava la penna. Chi mai poteva saperlo.
Una divisione. Una sottrazione. Una moltiplicazione.
Una addizione. Sempre con questi sacchi di zucchero.
Prima la moltiplicazione, poi la sottrazione. No. Una divisione.
Uno scappellotto. La pianta inaridiva subito.
Buoni e cattivi. Non parlerò più con Gino Bell. E nemmeno
con Fazio. Infine l’uscita. Nelle aule rimanevano
sugli attaccapanni i grembiuli neri orlati di rosso. Montare
svelti sugli omnibus, i panierini vuotati che risonavano.
Le file in attesa nel peristilio, gli alberi già senza
sole. Ecco il nostro. In un attimo i sedili erano gremiti. E
talvolta una classe veniva condotta ad un altro cortile
sconosciuto, dove li aspettava lo Straordinario. Imbruniva.
Ario, ario, facevano gli scolaretti a grida selvagge sospingendosi
sul predellino; e nell’ora inoltrata, la mancanza
di mamme, l’ignoto acuivano il senso arcano di
tragico emanante da quelle prime esperienze scolastiche.
A uno a uno smontavano tutti. Rimaneva Pofi. Il
vetturino comprò un cartoccio di patate bollite. Erano
fumanti, vi cospargeva su pizzicatine di sale. Scorse gli
occhi cupidi. Gliene offrì una. Mentre le ruote erano di
nuovo in movimento, il piccino passandola fra le mani
più volte la appressò alla bocca e soffiava, soffiava.
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Indice
5 Antonio Pizzuto, investigatore
di Gianfranco Contini
15 Si riparano bambole
257 Nota al testo
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