martedì 5 luglio 2011

Scritti di Antonio Pizzuto su Erice selezionati da Antonio pane

Mio nonno era letterato e poeta (sull’Erice ha la sua statua).[1]

Seralmente era pei maligni uno spasso condurre alla funzione del Vespro qualche cittadino giunto di fresco. Il vecchio duomo si ergeva sull’acciottolato in riquadri invaso d’erba a ciuffetti. Fatti i consunti gradini la navata, tutta sfarzose luci, appariva deserta in mezzo dove si scorgeva un grossolano inginocchiatoio e gremita di fedeli attorno. Le donne, presa l’acqua santa, traevano dopo genuflessione indistruttibili seggiole dalla catasta recandosele a ingrossare le file delle devote sul margine del gran spazio vuoto, e nel tragitto si avea cura di mantenersene distanti. Gli scialli di seta nera, ampi da coprire le teste, si alternavano coi vestiti lussuosi delle villeggianti. Prima che Eleonora comparisse ve n’era già il presentimento. Ella entrava, non è a dire come ignorata dalle astanti, entrava un po’ dimessa un po’ altera in atto di ignorarle a sua volta, e percorsa l’interminabile distanza fino all’inginocchiatoio vi si prostrava reclinando la testa, e non rimaneva visibile di lei che il lucido della capigliatura sotto il velo, spartita a metà, la quale con gli occhi e con le narici era quanto attirava gli uomini mentre nel giardino pubblico, a notte alta, ella di cespuglio in cespuglio tendeva loro le sue insidie bianca per la luna.[2]

La vista del sottostante mare tutto crespe immobili gli suscitava il ricordo infantile di una villeggiatura trascorsa da solo con la nonna che ogni mattina appena desto trovava inginocchiata dinanzi il letto pronta per lavargli i piedi in una caldaietta di acqua tepida. Gli infilava poi la camicia appena stirata, odorosa e candida. Cara.[3]

Qualche giorno dopo seguiva la partenza dei nonni zie e Pofi per Erice. Del nonno c’è colà il mezzobusto al Balio. Più che partenze quelle erano vere spedizioni. Un numero incalcolabile di bauli, valigie, casse e cassette precedevano; ma la cassetta con Darling, quella viaggiava loro accanto. La nonna stringeva a sé il borsotto con i gioielli, qualche moneta d’oro e denaro, tenendosi discosta, pur sempre in guardia da casa alla stazione e dallo scompartimento riservato alla cima del monte dove è Erice, fino all’arrivo, ingresso, deposizione nel cassetto. Faceva fresco. Già il mattino seguente ecco i primi doni di uve fichi formaggi; i grappoli costituivano dei festoni nella stanzetta da pranzo. E le prime visite, le visite di calore. Il gran bagaglio era aperto, la moltitudine di vestiti stirata, riposta, tutte stanche a sera. Per conto suo il nonno non cambiava che scrivania e scaffali, ma l’inchiostro era quello, eguale la vita, ininterrotto il colloquio ideale con i grandi, l’incanto contemplativo della pura bellezza. Là Pofi poteva uscire da solo. Quei selciati meravigliosamente tersi, come cristallo, quali le abitatrici a piano li mantenevano in gara spazzando ogni fuscellino appena cadutovi, risonavano dei suoi passi anche nelle ore sonnolente. Scoccate le quattro dopo mezzogiorno, la banda comunale faceva un giro di sveglia per le strade deserte, sempre rintonando la stessa marcia militare, di stile schubertiano ma con scoppietti. Uno schiudersi di persiane verdi. Ognuno lasciato il letto andava a lavarsi la faccia. Mezz’oretta dopo, per le vie già toccate dalla prima ombra spuntavano riposati passeggiatori diretti al Balio. Sul tardi le domeniche e il giovedì la banda occupava l’angolo della Loggia. Terminato il pezzo ecco i musicofili intenti al cambio del cartello, già letto prima che apparisse nel quadro. Ponchielli, La danza delle ore. Qui, al momento di attaccare il presto, la concitazione del capobanda era massima. Egli si incurvava come un fantino, il viso stravolto, incitando tutti. Presto, non c’è tempo da perdere, parea dicesse, e sferzava l’aria, fermi intorno intorno i più appassionati in assedio le bocche aperte, mentre gli indifferenti discorrevano passeggiando dietro la folla, pronti ad alzare la voce per intendersi appena levatasi qualche raffica di fortissimo. Altri immobili si puntellavano contro la facciata del teatro civico, altri ancora stanchi di sbadigliare movevano verso il circolo dei civili, appena oltre la piazza, all’inizio del corso. Tre porte sempre spalancate aveva quel circolo, tre quello dei signori, proprio di fronte. Dalla via si scorgevano mobili di legno chiaro nel primo, di colore oscuro nell’altro, sedie ossute in quello, nere poltrone di zigrino, ed in più il biliardo, in questo. Qui i ricchi e patrizi, là il terzo stato. Era ancora presto per il giuoco. Non rimaneva che sedersi e tacere, o una chiacchieratina cauta: come uno schiudeva la bocca, pronti la cornetta o un gran colpo di piatti con la cassa sopraggiungevano ammonitori. Diradatasi dopo il concerto la Loggia e scese le ombre, venivano accesi i lumi nei due circoli. La luce bianchissima si diffondeva con l’odore aspro del carburo. Al circolo dei civili incominciava l’attesa partita dei quattro gran giuocatori. Una cerchia di buongustai protesi ne seguiva ogni mossa, qui i partigiani del notaio, il più audace, dalla parte opposta quelli del cancelliere, il più prudente. Giuocavano per ore; l’indovinare chi fosse mai compagno, il battere secco della carta inattesa, causa rispettivamente del crollo e del trionfo, le discussioni magistrali, ora a periodi ipotetici, ora autentici atti di accusa, si riproducevano a ogni partita. Il piattello andava riempiendosi di monete. L’ultima, ecco. E proprio il cancelliere, quel settantenne scarno dal naso affilato, prese le carte dichiarò il solissimo: solo contro i tre consociati, solo e senza il sussidio del monte: o vincere o soccombere raddoppiando la posta ben ragguardevole ormai. Alla prima mano i compagni ghermito il giuoco non se lo lasciavano sfuggire, appoggiandosi mutuamente. Il gran vecchio impassibile cedeva giro per giro. Nel silenzio si percepiva il friggere della lampada. Anche il cameriere, sopraggiunto in punta di piedi, era là. L’offensiva durò fino alla quint’ultima carta, quando venne con arroganza imposto il re di spade. L’asso non cadde. Calò il due. L’asso non cadde. Coppe, dunque: non c’era altro da fare. E il cancelliere spiegò le sue carte. Vittoria. Sei punti e due figure. Egli intascò tutto e avvoltasi bene al collo la sciarpa di lana prese congedo e uscì seguito dal nipote, senza uno sguardo pei suoi ammiratori. Anche i tre altri se ne andarono. Allora cambiò scena. Le porte vennero chiuse, la gran tavola fu portata avanti, alla chiacchiera succedette il bisbiglio, una cura di non far rumore. I più ratti presero posto, altri andarono nelle due salette per sedie che importavano sollevate a mezz’aria. Ognuno depose innanzi a sé il suo gruzzolo. Già Ciccino tramescolava le carte, lucide e nuove. Un tre, un sette; egli rivoltò il mazzo ed apparve un re. Il tre e il sette vennero coperti di poste. Ciccino ne contrappose altrettante, mucchietto per mucchietto. In un silenzio ben altro le sue dita sottili si accinsero a discoprire che c’era sotto il re rimovendolo impercettibilmente di sulle carte. Del bianco. Ancora del bianco. Del bianco ancora. Del bianco. Un filino nero. Un cinque. Il re, liberato, rimase di rincontro alle prime due carte. Altre monete di argento aspettarono vicino al sette di accogliervi il cinque in carrozza. Ma apparve un altro cinque. Ciccino le trasse a sé. Venne fuori un sei. Al cigolio della porta tutte le teste si volsero nel fumo, tutti furono all’erta. Il cameriere sottovoce dallo spiraglio avvertì che cercavano Pofi. Nessuno si era accorto di lui. Egli rincasò tenuto per mano, piangente. Ogni momento venivano a bussare; si apriva la finestra, ed era ancora qualcuno a chiedere se lo avessero ritrovato. I più premurosi furono il babbo e la mamma di Cotilù: mandarono tre volte. Pofi era l’unico maschio ammesso in famiglia. Si raccontava circa la severità del padre che, già adolescente, Cotilù dové stare in mezzo alla via ginocchioni davanti casa. Pofi per l’età neutra aveva libero ingresso, entrando ed uscendo a tutte le ore. Cotilù se lo conduceva nella sua cameretta e là messasi coccoloni, in un sussurrìo, quante confidenze e segreti. Sai, gli diceva, io scherzo con Carlo il grande. Che, gli porteresti questo biglietto? e lo cavava dal seno. Poi ti darò un pacchetto di sigarette. Carlo era un giovanottone ricciuto. Pofi entrava nella farmacia e infilatosi dietro il bancone porgeva la carta che era ricevuta con mano invisibile al pubblico. E scappava di corsa ad assicurare dell’avvenuta consegna, senza indugio e senza precauzioni. Esaurite le cosettine personali, Cotilù gli mostrava l’alcova dei genitori. Sopra la specchiera nella camera fresca, tenuta quasi al buio, un grande ordine. Cotilù ne tolse una bottiglia e chinatasi gliela presentò. Pesava. Il vetro, tutto bianco e opaco, non lasciava scorgere ma tradiva l’impasto. Si chiama Latte di Nozze. La mamma se lo passa sul viso prima di uscire. Perché? Pofi rimase da loro per cena. Mangiavano intimiditi sotto lo sguardo fiammeggiante del padre, senza alzare la testa. I bicchieri splendevano. Ogni sciabolata contro il piatto certe occhiatacce, ogni mossa maldestra un breve sermone. Alle due gemelline, sedute su cuscini, con due treccine ciascuna, si appannavano gli occhialini. Lo zio Titta riaccompagnò Pofi. Era un tratto brevissimo, di solito deserto a quell’ora. Mancava la pubblica illuminazione. Ma gruppi di uomini con fiaccole venivano incontro, la gente conversava da finestra a finestra, dai davanzali alla strada, è in fondo a un burrone, è precipitato da un dirupo, è vivo, chi, ma chi, il marchese Scaravelli, gli è esploso il fucile, o poverino, e i lumi sparivano alla svolta. Fu una villeggiatura tribolata. E pensare che ognuno chiedeva così poco: stare bene e vivere spensierati. Duravano quei commenti ancora, e seguì l’eccidio di Castelluzzo, un fattaccio oscuro. Se ne videro subito le conseguenze. Giunse un distaccamento di fanteria. I soldati si acquartierarono in una chiesa sconsacrata, gli ufficiali nell’unico albergo. Tutte le case li accolsero. C’erano i tenenti: il tenente Bisesti, il tenente Morasso, il tenente Gandolfo, il tenente Di Bartolo; c’era il capitano, capitano Bertini. Sai, disse Cotilù a Pofi, accoccolandoglisi dinanzi nei recessi della sua cameretta, io scherzo con Gandolfo. Che, gli porteresti questo bigliettino? e lo trasse dal seno. Poi ti darò un pacchetto di sigarette. Gli ufficiali stavano a tavola, due da una parte e due dall’altra con il capitano al centro. Gandolfo sedeva a sinistra del capitano, che sempre salutava Pofi con stentorei toh chi si vede. Erano accoglienze cordiali, ma motteggianti. Intimidivano. Qua, vieni a sederti qua. Tu, Antonia, una seggiola. Qui, alla mia destra. Gandolfo tagliava un pezzettino di bistecca senza levare gli occhi. Era lungo lungo. Pofi si alzò. Dove vai. In lui difettava la raffinata pazienza di certi coetanei. Il suo sguardo era fisso su Gandolfo. Gandolfo tagliava un altro pezzettino di bistecca adagino adagino. Pofi si alzò un’altra volta. Il capitano lo rimise a sedere. Ma che hai, finirono per chiedergli. Infruttuosi i colpettini di tosse, la raucedine, il dimenarsi; e la piccola busta rosa sorgeva a poco per volta dietro il fazzoletto. La sera seguente Pofi recò a lei un messaggio di lui. Andarono per la consegna in terrazzo. Aspettami, gli disse. Il terrazzo era latteo sotto la luna. Giungeva un canto, E lucevan le stelle. L’aria odorava di tuberose, le tegole parevano d’argento, ogni quarto d’ora dalla Loggia i rintocchi dell’orologio si diffondevano lenti. Cotilù riapparve. Vestiva di bianco. Una fosforescenza le avvolgeva la capigliatura nera. I suoi passi erano silenziosi. Io pure, le disse Pofi, voglio bene a una. Davvero? Davvero. Come le splendevano gli occhi. E la conosco io? Sì. E chi sarà? Pofi non rispose. Le sorrideva. E chi sarà mai? Egli continuava a sorriderle. Be’, ella concluse, domani ti darò una risposta da portargli. E mentre la contemplava sorridendole sempre, chinatasi gli infilò nel taschino le sigarette. I guai non tardarono. Persiane insolitamente serrate tutta la mattina, e pure il portone, e Cotilù invisibile. Uscì lo zio Titta, subito richiudendo, e invece di prenderlo al solito per il ganascino fissò duramente Pofi, che senza voltarsi tirò diritto fino al distaccamento, dove il sergente suo amico lo accolse con la consueta dolcezza e gli fece bere in gavetta l’acqua con l’anice. I soldati stavano al rancio, voci e rumori di latta rimbombavano nell’ampio luogo invaso dai pagliericci e da forti odori. Di qui, risalito quel breve tratto, Pofi andò alla mensa degli ufficiali. Vieni avanti, piccolo ruffiano, vieni, vieni, e tutti che ridevano, anche Gandolfo, nel vederlo così allibito, gli occhi imbambolati, incerto sulla soglia. E il capitano a ripetere l’orribile parola, con un sorrisetto insopportabile che gli scopriva lunghi denti sotto i baffoni. Ma anche per lui e per i quattro tenenti venne l’ora poiché, inatteso, comparve a Erice il maggiore, fiero, col monocolo. Al Piano delle Forche, che essi chiamavano Piazza d’armi, Pofi lo vide passare in rivista la compagnia. Il cavallo, dalla criniera e dalla coda recise, ora abbassava la testa, ora scalpitava. Dopo la sfilata egli con un cenno del frustino chiamò a sé il capitano, che accorse. I plotoni stavano schierati contro il vento che risoffiava in ogni cappotto. Dalla sella, piegando appena il capo, gli disse poche parole che bastarono per rannuvolarlo. Dov’era più il suo fare ilare? che gli avrà detto? Fu la volta poi di Bisesti, il quale tornò indietro smorto ed afflitto. Non andò meglio né a Morasso né a Gandolfo. Ma il più colpito fu Di Bartolo. Basta, si udì il presentatarm, l’incubo ebbe fine. Abbozzato un gesto di saluto il maggiore si allontanò sul lucente sauro per lo stradale, tutti dal parapetto a spiarne l’avviarsi, non avesse dimenticato qualcosa. Era ospite dei marchesi Panciatichi, la seconda villa dopo l’abbeveratoio, egli stesso un marchese. È proprio cattivo, si sfogava Di Bartolo col piccino mentre lasciavano per ultimi il Piano delle Forche. Pofi gli chiese invano perché e come fosse cattivo. E non se ne andava. Era lì alla villa da giorni e giorni. Poteva capitar su tutti i momenti. Dai rimproveri riversati sul povero sergente e dagli sfoghi di questi fu possibile ricostruire gli addebiti del maggiore: i soldati portavano il fucile come una candela, la barba non era fatta ogni giorno, etc. Si lustrò, si lubrificò, si marciò, e colui né partiva né ritornava. Dalla Porta di Trapani si presentarono certi attori rimasti incagliati in città per scioglimento di compagnia. Il sindaco concesse loro il teatro, che non si apriva tutti gli anni. Mancavano le comparse, quelli delle particine, non già volontari ericini. Anche Pofi agognava la ribalta, ma era troppo piccolo. Incominciarono le prove. Adolfino, fiero di essere il principale attore onorario, andava raccontando a tutti certo discorso rivoltogli dalla prima donna, Avvocato, non è così che dovete dire: Ti amo. Voi lo dite come direste che sono le undici e mezza. Ve lo farei dire io, Ti amo, come va detto. Egli ripeteva queste parole e restava assorto scuotendo la cenere via via maturata dalla sigaretta. Fu appeso il cartello, scritto a mano in grossi caratteri, annunciante la rappresentazione. L’impresario iniziò le visite di casa in casa con la pianta dei palchi da prenotare. Gli faceva da guida Pofi, che lo condusse per primo a casa sua. La nobiltà largì qualche aiuto, ma era addirittura impensabile per mesticanza. Quello si arrabattava, poveraccio, a strappare mezze promesse, tornando e ritornando, spremendo adesioni come un tubetto spolpato di dentifricio: ma quanti vuoti sempre nel pur circoscritto ferro di cavallo. Gli ufficiali cercavano la barcaccia, che non esisteva. Presero un palco sul lato sinistro. Quando si trattò di salire da Cotilù (forse, poverella, incatenata entro un sotterraneo a vedere Napoli), Pofi attese in distanza: fiasco anche quello.  Ma  come, si lamentava l’impresario, un dramma qual è la Fedora lasciare così indifferente il pubblico. E che ne sarebbe stato poi dell’Amleto, nella serata d’onore? Meglio il Kean, allora. Neanche a farlo apposta, il maggiore ordinò una manovra: tutta la compagnia partì all’alba. Il sipario si aperse con gran ritardo, dopo un’attesa protratta fino all’ultimo, ma i posti occupati erano solo quelli, anche in platea, sotto la luce squallida dei lumi a petrolio. Si era al secondo atto quando gli ufficiali, reduci dall’esercitazione, fecero ingresso. Tale fu il tramestio, che gli attori sospesero di recitare. Erano tutti e cinque in alta uniforme, con i guanti bianchi; Pofi lasciata sola zia Beatrice nel palco, passava giubilante dall’uno all’altro: là il capitano quella brutta parola non poteva ripetergliela. Com’erano belli, come erano eleganti nelle giubbe dai gran bottoni di argento disposti a polimastia, i calzoni tesi, quei colletti insaldati: in loro i personaggi sparsi sul palcoscenico ebbero non degli spettatori ma dei rivali. Furono pochi giorni ancora e il distaccamento lasciò Erice. Partirono di nottetempo. All’alba non c’era altro che un po’ di paglia. Pofi si imbatté nel portalettere, che accettò di scendere con lui a Trapani. Scivolavano pei dirupi, il sole era alto ormai, giunsero alle falde, a una via dritta e lunghissima. Cammina cammina cammina, fra carri muli sopraccarichi e polverosi calessi. Ecco il giardino pubblico, ecco il grande albergo. Pofi disse al compagno di aspettarlo ed entrò. Capitano Bertini. La camera 9 era sulla sinistra. Aveva una porta chiara. Egli picchiò. Udì quel vocione amico, la schiuse, fece qualche passo. Il suo capitano stava chino ed insaponato dinanzi alla catinella. Tu qui. Torna subito indietro. Pofi sventolò un frettoloso saluto e scappò via. Il portalettere era là ancora. Ripresero il cammino, ben altrimenti faticoso assetati, ansando. Per un tratto Pofi non fu abbandonato ma rimaneva indietro, essendo in ritardo il fattorino; e si ritrovò solo infine su per le rocce nascondentigli sempre la meta, tutte simili, tutte ripide e scabre. Unica direzione salire, inerpicarsi graffiato dai pruni, e mai spuntava la cima. Per primo gli si mostrò il campanile, che sonava le quattro. Dietro era raggomitolata Erice bella, dinanzi a lui il Piano delle Forche irriconoscibile da quella parte. Grazie a Dio, giunto. Grazie a Dio, ritrovato. La nonna lo lavò. Teneva nel forno un appetitoso cosciotto. A tavola era apparecchiato soltanto il suo posto sotto i grappoli d’uva pendenti dalle travi. E poi l’aragosta. E poi a nanna. Pofi fu casalingo un paio di giorni, che spese così poetando: Tu scendevi quel colle / già coperto di zolle / del bell’autunno e provavi un dolore / terribile che ti rodeva il cuore/. Egli passeggiava nel vasto patio fiorito di convolvoli andando a guardare l’acqua in fondo al pozzo sonoro, lontanissima e piccola quanto una luna, o qui presso casa nella cisterna; si arrampicava sul fico, esplorava i due magazzini bui, le casse di libri che c’erano. Verso il tramonto Giulia apriva ai poveri. Eccoli irrompere in cortile armati di ciotole e scodelle. Appena comparso il calderone con la pasta fumante esse erano tutte protese. La zia Beatrice, in grembiule sui primi gradini del terrazzo, brandendo una mestola iniziava la distribuzione, attenta ai furbi che si ripresentavano. Ma certo lo si poteva confinare in quel breve spazio? no. E dunque? Egli fece le sue promesse del resto. Andò al Balio. Era l’ora assolata in cui nessun ericino e nessun villeggiante comune vi si recava, l’ora dei patrizi. Stavano nella rotonda sotto i pini, marchese e conti, baronesse e baroni, e quelle due dame egiziane che mai riapparivano con gli stessi vestiti. Lo spiazzo conteneva tutta una serie di archetti che palle colorate dovevano attraversare sospinte da mazzuole. Palla fiacca. Giusto ante portas. A furia di scossette e di scappellotti l’altra le era accostata fin sul deretano, purché non se ne accorgesse, e fermata sotto del piede, giù un fendente contro la neghittosa, che di contraccolpo partita attraversava, ne era tempo, la meta. Ogni movimento ben misurato e composto. I non partecipanti sedevano tutto intorno, spalle al castello turrito dov’è il bagno di Venere, non a guardare ma a vedere la rocca del conte Pepoli, alta e tonda contro il velluto delle pianure sottostanti fra la pineta declive sino al basso ed il mare pescoso, dalle crespe immobili di lassù. Tacevano. O se non tacevano, era così fioco il parlare raro e conciso che neanche le voci si percepivano: per tutta risposta, alle volte, qualche sorrisino più rassegnato che sereno. Che potevano dire essi, dovendosi escludere la maldicenza, i dissensi, la curiosità e un interesse qualsiasi? Quel giorno anche in Erice erano esposte le bandiere a mezz’asta per McKinley. Ma le altre volte? Unico argomento congetturale quello del tempo, che bella giornata. Ed era mai probabile che lo ripetessero per ore? Muta, sì, il tempo, non però con tale volubilità da fornire materia ad una conversazione fluente, e tutt’al più soggetto di apertura. Parlavano essi, l’aspetto delle cose era sempre quello. Né Pofi poté scoprire gran che la sera in cui, al termine della villeggiatura, capitò nell’appartamento baronale. Le pareti erano rivestite di drappo, divani e tappeti, una luce dolce, pesanti riviste lucide, grossi libri ben rilegati, e pitture e vasi, e tazze di tè fumante. Contessine sottili, baronessine e marchesi stavano là. Egli affondando tra i cuscini sfogliava le grandi pagine forestiere. Doveva partire da Erice il mattino appresso. Si frenò, si frenò sinché fu possibile. Nel sottovoce il suo pianto incompreso diede un disagio che i gran singhiozzi trasformarono in muto rincrescimento. Una manina gli fece due tre glaciali carezze, gli altri ignorarono quel dolore. E Pofi non sapeva come fuggire. Meglio di sicuro la militare ingiunzione. In treno, passando le saline piramidi, voleva descrivere quei parati, non ne riscosse che orgogliosi rimproveri.[4]

Domattina va a Trapani. Bisognava rimettersi in viaggio. Trapani, quindi Erice, donde si vedono due mari, e le isole, Favignana, Levanzo, Maretimo, nelle giornate più limpide anche Pantelleria e, dicevano, la stessa costa africana. Erice bella, ma anche militare. Bastava portarvi un po’ di cannoni, e si dominava mezza provincia, sino a Capo Cofano. Certo proprio quella la vera meta, Erice. Tornarvi. Dopo tanti anni. Cotilù. Incontrarla. Ad averne tempo rivedere poi il Balio, inerpicarsi sulle mura fenicie, fra i ronchi smaltati di pavidi ciclamini cercare l’ossario squarciato scorto una volta, e non sapeva se in sogno.[5]

E un altro sabato alla bimare Erice, così tersa da esserne resa azzurra. Che proverà una fanciulla al buio nella cameretta ascoltando la serenata? D’in cima ai suoi ottant’anni il dottore Spada attribuiva a sé l’omaggio e schiusa la persiana grazie ragazzi, ora andiamocene un pochino a letto.[6]

Erice, odoranti di salvia i suoi paradisi, ingiù dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le strade spirali, ingressi ed imposte chiusi, laddentro cortili dove minuscole lune l’acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli, secondari usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli maestri. Pendevano da imbiancato soffitto a travi, per famiglie, grappoli mori nilo aurei impergolando, in capestro oblunghi formaggi, api buridane intorno, moscerini pulviscolosi. I rintocchi di quarta ora, passi solitari a violar silenzio dopo mezzogiorno più greve nel generale sopore, ed apparecchiarsi in suo luogo la banda, ordine quadrilungo, bocche contro ance, piatti per collidere, pronta mazzuola da picchiare grancassa. Fattisi gli sguardi furibondi e universalmente centripeti, levata mano calando per fendente, esplodevano ottoni con gran sternuto, cavernoso pelliccio rombo, onde ventrali fremiti cui nel passaggio era d’ala, in ogni zittita alacri i clarini nasardi. All’energica marcia convenzionale diffusa nel circuito cittadino, dimora per dimora sorgevano i contribuenti verso abluzioni accappella, contrappuntando di sbruffi le timballate, solfeggiava operosa spazzola, c’era dondolo in diamantiferi lampadari. Dismessi poi gli strumenti, tornavano i sonatori artigiani, da incudini deschetti morse ovvio l’incamminarsi all’aprico quanti dianzi desti il mazzicato soffio. Nelle or fioche libere stanze affannoso assesto, levigatura del letto, sbambagiarne, semplice formalità, la stiva, fanticellare per polvere, da pepite, ovunque probabile isterilendo. Farsi l’ora del vespro in duomo, discendere per lo sdrucciolo acciottolato giù dove è disparte, dai secoli, racchiuse negli uniformi gran manti, servetta appresso, pur spedite che fossero ecco vi occupava già il miglior posto, intenta a rosario, labbra elettriche, comoda segregazione dintorno, la scandalosa. Infino vietato nominarla, Lionora. Il ritorno dalla funzione, ormai buio, talora erta erta raggiungerle spettrale nana, a emergerne come fluttuando, veloce nebbia ond’erano tosto precedute, confuse poi infra cintola, ché non osava dippiù. A tasto secondo lattescenza sposar la toppa inoltrarsi, in diedro senza ringhiera i pochi gradini, odor agile di petrolio filigginante arioso scartoccio. Dentro, riassumeva ogni cosa aspetti sensibili, sufficienti per nesso a scrupolosità stoglitrici i più da insospettati che sei, quando costituisce pur uno qual segreto dell’essere problematiche dissolventisi sempre in altre via via. Chiocciavano al suolo tolte scarpe, quatte maioliche dopo spilli enarmonici, molestate le bocce sui comodini. Ella ricopriva di coltri declinandogli pervicaci rotule il nipotello, un gesto riassunto forse bimba lei dalla propria nonna deleta ormai; fornitolo in paurosa luce, erano finalmente al termine le diurne sue agende, casa riposava calda nel menta montanino. Di primo giorno, opaca nell’ombra, che dormissero ancora la transitoria presenza, ella incicoriava modico fernambuco, dandovi corpo e cannella e ciottolo zucchero, una cuccuma dal romanico aspetto. Nuncio quasi con risonanza spronelle un gaio tinnire di stadera, appariva scalzo fornito il pesciaiuolo corsa rupi balze l’impervia costa da secca alla popolosa vetta, così presto che saraghi palamite sgombri vi pervenivano sbadigliando. Alga, argenti vividi, reparti azzurrognoli, schiere paonazze a righine gialle, in castigo falange rosa, esalavano da quel deposto giunco di violette salsi limone, sineterici. Or compiaciuta ascoltandolo privilegiante, né mai patteggiatrice, diafani in mosse autonome giù nel cesto articoli antenne filamenti morione, lei a solvergli prezzo, era l’aragosta riversa entro fondo acquaio, via via fatto ben vivo fuoco, indotto prudente sale, pur furioso il bollore, qui capofitto tuffata, vita eroicamente contesa, un impeto, altro debole contro coperchio represso da capovolto mortaio, vinta; e lassar calco, per faccende suburbicarie, caramboli: ecco salparla ormai tirolese d’orafa catafratta rinascimentale. Dilagante marea, quel moltiplicarsi di opere, rifocilli, governo; caracollare a reietti lini una poi l’altra, visi sdati chiamose, mamma, servir l’avo, risguardi creduli transitiva sul piccolo finto addormentato, le palpebre con l’insistenza alfine tradirlo, per arcano pernio ginocchioni forzargli dolce gambe addentro tepido lavacro, già incerulendovi saponetta, lui assorto, almeno sembrava, nei pur sempre insensati, ultimo, parametri euristici. Schizzarle a dilacrimandi spruzzi solleticato le piote su mai più erto dorso né ancor glabre fattezze, querulo, insofferente, prossimo: pazienza invocata scappa; incignargli camicia, bianche qual edita mandorla, disserrantisi quasi con verecondia, lievi di gelsomino gaggia. All’estremo, frustrando volta per volta invincibili irrequietezze ogni tentativo serafico di aggiustargli la scriminatura o cravatta, ella rimediava estrinseca guardatoria est est est, minacciante non meno che lo potrebbe uno zefiro vorticosi tifoni. Condiscendenze repentine valevano da astruso timore ad annoverarla vittoriesima, fresco ratto in due salti era già lontano, la volta per apprestare diportevole il nonno, berrettino perla di villeggiante, ben lesta riordinargli intangibile scrivania, con topografico schema, eppure tornato se ne avvedeva subito, residuo instando tal perfido nonsoché. E a lei dispensante sulla tovaglia ruvida le posatone d’argento, il vocativo ossignoriddio, pur calibrato in arrivo dallo scrittoio, fiaccava l’esercizio. Avanti sparecchio, la zia piccola a declamarle, avida tal udienza, imbambolandosi l’indigena fantesina, erano diffuse elegie materne frequenti nella lettera quotidiana di avvicinamento. Poi la siesta, dissipativa a penombre, tosto irreperibile l’ospitino. Allora, tempestivo altrove un forbir oricalchi per mo ricorrente diana, nel suo cantuccio, aria di esser sola né vista, ella apriva roco cassetto, da farlo anche occulta labile specchiera cui abbellarsi, dita ad accordi su indulta capigliatura; dentrovi parafernali ciprie, aromi, unterie, persisterne rima interna volatili melliflue cere. Mai sempre, ancor dormiente, in sorrisi.[7]

D’insù a picco, bimare, per velluti stupendi, fra opposito promontorio e la falce industre confronte, entro insieme da fiaba, tal distesa purificata, sassànide, tutta ville villaggi opere da trent’anni in guerra, l’inaccessibile pedaggiere quatto finestra su forzoso passaggio ivi, nel dischiudersi o rinserrata, nera secco sonora. Mano etiope avida sul deposto obolo: nient’altro leggende, visionari, se pizie.[8]

Svegliarsi in sonno di lusso, luogo evento incerti, sommerso da tenebra insolente, ultimo osar tasto e, porgendo orecchio, il russo parentale. Un pretesto. Assoltovi, sgarbato soffio rifar notte; contrattaccarla ad oltranza, sì da eclissar l’anziano lenzuola, inanimendo piccino luminaria. Pareti nude e ruvide; penduli dal palco imbiancato grappoli ghiotti. Luce per i ridesti, sepolta altrui profughi entro l’invisibile, ove sogno mansuete angosce su battenti di bronzo. Poco rappreso oramai rimasto nella chicchera longobarda fra sevo candido e atro strutto stoppino. Di or spalancate stecche olezzi tepore. Indi un mare pescoso, blu: in limpidezza muovervi fatale declino, simili assonnate braccia senili, sue antenne filamentose catafratta aragosta dannata a quel secolare. Perso ovunque al chiarore ogni aspetto trascendentale, non arcolaio ma zappa, né damaschi o broccati per vivide foglioline, trasfigurata visione in più ferace altra, egualmente gentile, da assaporarvi lattughe nei lor cesti incunabuli, fruscianti quali pallido raso, scelte svarie di fra cotanti légumes sanctifiés.[9]

Pinete. Arse. Altre; ancora strutte: ere alterne, stabile sol il titolo, incerto per che. Di balza in balza, avendolo promontorio, giù la fervorosa metropoli, sicura sottesso teicurgie alpestri ertevi alfabetanti, tutta traffici. E entro comitale museo, cruenta, ivi custodita umana affettatrice condenne, onde ben a vista di sul soppalco paniera: tramandantesi lo scattar tagliuola contro un collo imprudente, lungi alcun salvatore, tal armillare lunetta. Da chi la grazia. Così declinati in Kant secondo morfologia sua i detti greci insertivi. Al vertice lungo spire, men degna e oppressiva quella mediana, essa urbe tucididea, suo centro pianeggiante la Loggia, con teatro, civica sede, rintocchi ogni quarto d’ora, assito per banda, opposto estremo caffeuccio ove, instauratio magna, rosea gramolata acquitrina. Indi resinifero il Balio nome, con Xanto, ai cavalli omerici cui dato il piangere, ivi dal castello ventoso, oltr’oltre Bagno di Venere, qual vista. A lor termine le vacanze, e daccapo scuola, eterno altr’anno.[10]

la locomotiva pipante, iraconda estolta fra pigmei, trascinarsi vetture vuote a aggressori non troppi o gran che furiosi. Oggi da far in due orette, tutt’altro allora: parallelo via via col chiaro le saline piramidi, scesa sera che greve ogni reticella. Nel carro postale darsi vacillando il procaccia alle sue manovre di contro le cellette lor favo. Tosto che smesso lo scettrifero bollo, pronta a carpirlo la manina del ragazzotto affidatogli e, ben intriso nero, tac sul polso, là donde l’icore a Venere. Amb pan al Pal. Infra sacchi e cassette ovunque, dei quatti piccoli panieri, arcuto il manico, tutti placidi pesci azzurri, onde sineterica emanazione ralaccalga: farvisi, all’arrivo, ripescatore d’abbastanza per cena e notte, reso quell’amichevole ostaggio. Ma come lesto a sbiadir di pelle sì frale impresso, indelebile in apparenza, non per meritoria cannella, solvendolo l’aria stessa, ambiziosa, scoloratura.[11]

A calcarne assito in lungo e per largo, dallo scabro fondale insino ribalta, minima l’estensione contro la platea e il doppio ordine di palchetti, consimili a vacue orbite valdostane. Abbastanza tre quattro passi ove non risparmiarli. Recite dinanzi qualche dozzina di audaci spettatori sfidanti l’aversa affettazione mondana, nell’ostentare nobile indifferenza, farsi ultimi sull’ingresso, qual alle corse sui somari. Osvaldo di Norvegia, camicia gialla, balbettoso pagì pagì, grinta assorta, e pipetta, oh malcapitato in provincia; e teco, l’intera compagnia arenatavi. Non certo file allo sportello ma questue; camerone per tutti e sei, siccome corsia, prima donna inclusa; e che fare da disincagliarsi, donde la minestrina a tanti pultifagi, aver eremo il paludoso privaio, e le camminate offerte (cherchez la femme) per veder fabbricare birra mercé tubi intriganti. tale sorbitane, secondo congetture, Senofonte a tappa in quel pago. Poi, come nel conato risolutivo gli issa issa, la civica restaurazione, posti prenotati, ed accedervi pagolieri: novissimi appena in tempo per il sole.[12]


[1] Sul ponte di Avignone, Firenze, Polistampa, 2004, p. 230.
[2] Così, Firenze, Polistampa, 1998, p. 67 (cap. X).
[3] Signorina Rosina, Firenze, Polistampa, 2004, p. 97 ( cap. sedicesimo).
[4] Si riparano bambole, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 41-54 (seconda sequenza).
[5] Si riparano bambole, pp. 196-197.
[6] Si riparano bambole, p. 296.
[7] Testamento, Firenze, Polistampa, 2009, pp. 9-12 (Nonna).
[8] Ultime e Penultime, Napoli, Cronopio, 2001, p.  159 (Berretta Rossa).
[9] Ultime e Penultime, pp. 161-162 (Il torchietto).
[10] Ultime e Penultime, pp. 164-165 (Piano delle Forche).
[11] Ultime e Penultime, pp. 168-169 (FSO).
[12] Ultime e Penultime, p. 195 (Norvegese).

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