CLASSICI DELLA FILOSOFIA
EMANUELE KANT
FONDAMENTI ALLA METAFISICA DEI COSTUMI
TRADUZIONE, INTRODUZIONE E NOTE DI ANTONIO PIZZUTO
A mia Madre,
stella che mi guida e rischiara.
a. p.
EDIZIONI SANDRON
SOCIETA’ ANONIMA
EDIZIONI REMO SANDRON
Libreria della Real Casa
Palermo - Milano
Palermo, 1942
I N T R O D U Z I O N E
1.Kant sorge sulla filosofia in una vera e propria “pienezza di tempi”. Da molto la coscienza si era assuefatta a considerare secondo proporzioni invertite il rapporto fra l’uomo e la natura. L’uomo non è più il centro dell’universo, di quella creazione perfettamente finita fatta per mostrarglisi, per girargli intorno: è la terra, piccolo pianeta, a roteare intorno al sole, piccolo astro; e quanto più si dilata la concezione del mondo, di altrettanto si contrae e riduce quella del potere che su questo l’uomo presumeva di esercitare. Si arriva alla visione moderna dell’infinito; la natura diviene qualcosa di vivente: un infinito e una vita ben diversi che quelli concepiti nell’evo antico, allorché l’uomo e la natura si trovavano di fronte, autonomi l’uno per l’altra, dati entrambi, incapaci di accrescimento o diminuzione, al cospetto di una divinità indifferente e indiscussa. Le grandi scoperte e i progressi della scienza con sui si apre il Rinascimento conferiscono alla natura un’arcana maestà. La creatura umana si perde nella contemplazione di essa. Vi è un momento in cui pare essa ripeta col Cristo: “Perché mi abbandoni, o Dio?” Non più il misticismo cristiano sorregge di fronte al martirio: vi si va incontro con le sole forze della convinzione, per eroismo umano anziché in istato di grazia. E più si svelano gli sconfinati lembi dell’universo, più
l’uomo si fa dimentico di se stesso. Un soffio di paganesimo rinnovato e rinnovatore passa sull’umanità. Ma alla fine, come avviene del neonato che, scorse quelle settimane nelle quali il suo sguardo errava da una luce all’altra più intensa, finisce per scoprire la propria manina, quest’uomo nuovo scopre finalmente se stesso. Egli si trova in possesso di una coscienza, si trova in possesso di una ragione, le afferma, vi si afferma. Può opporsi ormai alla natura in un dualismo inter pares, molto più conscio che quello degli antichi. All’infinito dei mondi sa contrapporre quello suo proprio della matematica. Con questa hanno inizio i primi tentativi di conciliazione fra mondo ed Io, poiché si trova che l’universo sottostà a delle leggi e che queste si riconnettono col calcolo matematico. Sono le prime coincidenze fra i due mondi contrapposti. Ci si chiederà più tardi se tali coincidenze siano occasionali o se dipendano da un’armonia prestabilita, se cioè derivino da casualità o da causalità. Nella matematica intanto si crede di trovare il ponte più sicuro per passare dall’uno all’altro, dall’Io alla natura. E l’Io vuole trarre dalla struttura di questa le certezze quanto a se stesso. La natura è geometrica: la geometria deve offrire il metodo sicuro per acquisire altrettanta certezza nei riguardi dell’essere nostro. I primi immortali modelli di spiegazione filosofica mediante il metodo geometrico trovano dappertutto seguaci. Viene il momento in cui sembra non vi siano possibilità per la filosofia all’infuori di quello; e frattanto, caso curioso! Non è lontana l’ora in cui, a sua volta, la geometria intravede possibilità di progresso affidandosi invece ai metodi di logica matematica che tradurranno in equazioni analitiche perfino le strutture dei suoi elementi lineari. Cosi avviene che il processo evolutivo della filosofia va attuandosi di pari passo con creazioni universali che si oppongono vicendevolmente e delle quali anzi ciascuna pretende di assorbire e risolvere in sé totalmente quella che le si contrappone. Attraverso un tessuto sempre più sottile e sempre più astratto le dottrine si raggruppano però intorno a due poli ben chiaramente distinti nei caratteri fondamentali, a due modi di risolvere il problema essenziale della filosofia: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. L’uno di essi è il processo intellettuale, che vorrebbe afferrare e penetrare la natura e, su una guida logica che va dal sofisma fino alla pretesa, crede di poter comporre il dualismo rendendo valide per la natura le leggi del pensiero. Questo gruppo si fonda soprattutto sul principio della inconcepibilità del contrario per pretendere, basandosi su un uso equivoco di esso, che la natura debba uniformarsi necessariamente a tale principio. L’altro gruppo, più pensoso di muoversi sopra un terreno sicuro che di appagare le tendenze dello spirito, si fonda invece sul dato dell’esperienza. Se il metodo sarà rigoroso, diverrà però ben difficile di trascenderla. Il primo gruppo è quello dei filosofi detti razionalisti: gruppo eterogeneo, poiché comprende concezioni filosofiche disparate, le quali hanno questo solo di comune: di fondarsi sulla validità dei procedimenti del pensiero. L’altro è quello dei filosofi detti empiristi, per i quali il principio filosofico è quello dell’esame dell’esperienza e dei suoi dati. Ma nelle sfumature accade spesso che un filosofo empirista faccia del razionalismo e viceversa. La necessità di certi principi, dichiarano i razionalisti, deve condurci ad affermare l’esistenza delle idee innate, le quali recano impresso il marchio di una provenienza indipendente dall’esperienza, ossia a priori. Ribattono gli empiristi che le idee innate sono inammissibili. Come potremmo conoscere – chiede il più noto di questi ultimi – il sapore di un’oliva o di un fico prima di averli gustati? Sul dualismo originario fra Io e natura altri numerosi se ne innestano, secondo affinità re tendenze; ogni nuova soluzione, fondandosi costantemente su premesse incompatibili con quelle dell’avversaria, rende sempre più manifesto il contrasto fra l’uno e l’altro dei termini, i quali intanto non possono rimanere in rapporto, poiché non si può ignorare né l’uno né l’altro. Inani risultano i tentativi di risolvere il dualismo con soluzioni moniste, che cioè affermano una essenza unica della quale l’Io e la natura non sono che i modi: sono i grandi sistemi razionalisti coi quali si cerca di superare le difficoltà riducendo l’uno e l’altra ad unica essenza, un’essenza spirituale o razionale. Essi riproducono, con ben altro contenuto che nulla serba più di materiale, sistemi corrispondenti della filosofia greca. L’uno prende a fondamento una sostanza unica, della quale il mondo e lo spirito non sono che modificazioni e attributi. Il suo analogo è la dottrina greca dell’essere unico professata dagli eleatici, con un contenuto però profondamente opposto, poiché la nuova sostanza è intelligibile e non più soltanto incorporea nel senso di un semplice astrattismo, quale era stata nella filosofia eleatica: un Dio che si trova dappertutto e si diffonde dappertutto. E’ quindi un panteismo, il quale subisce la sorte di tutti i sistemi universali e assoluti: dalla loro immobilità deriva che vengono rapidamente sorpassati perchè il pensiero non sa arrestarsi. Dio trasferito nella natura è troppo cieco, troppo fuori posto per lo stesso starvi come inerenza e anzi come identità; ma altrettanto incongrua è una natura troppo veggente, troppo divina. L’altro sistema, per via formalmente opposta, perviene a una sostanza puramente intelligibile unica, ma ridotta a vero e proprio atomismo: l’universo non è che uno sterminato mosaico di sostanze animate indivisibili, le monadi, in cui è facile riconoscere una evoluzione moderna delle dottrine democritee, così come oggi in queste stesse monadi si può ritrovare per dir così un’anticipazione, una pallida intuizione della dottrina infratomica degli elettroni. Ma queste soluzioni del dualismo in monismi adeguati ala maturità di un pensiero dotto come quello del periodo tra il Rinascimento
e l’illuminismo, non potevano appagare troppo a lungo. Le loro basi oscillavano tra il dogma e l’ipotesi. Che altro è se non una ipotesi la monadologia? E dove trovare un più ortodosso modello di dogmatismo che in Spinosa? La coscienza filosofica reclamava un superamento di tanti assoluti annullatisi a vicenda. Una sola possibilità rimaneva storicamente e anche dialetticamente: la sintesi, quella sintesi che fondesse i due mondi così come si presentavano a determinare il problema costituendone una unità nuova. Kant ha fatto questa sintesi, la quale ha prodotto nella storia della filosofia lo stesso effetto rivoluzionario che la scoperta della rotazione della terra anziché del sole. La di lui opera multiforme, e soprattutto quella parte di essa in cui la nuova dottrina è esposta, potrebbe a buon diritto chiamarsi la Bibbia della filosofia.
2. Indubbiamente quasi tutti gli errori che si rimproverano e si commettono nel campo della filosofia dipendono dal realismo istintivo che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Questo realismo, ossia il considerare le cose che stanno fuori di noi quali indipendenti dai sensi e in generale da noi, così come avviene di continuo quando non riflettiamo filosoficamente sulle nostre esperienze, era stato respinto dalla filosofia sin dalle sue origini. Certo, una contestazione sulla validità della nostra conoscenza sensibile non veniva fatta, per esempio dai greci, con l’intelligenza e col significato specifico della filosofia moderna. Ma anche nelle concezioni di allora il punto di partenza non era diverso; né avrebbero ragion d’essere le dottrine di quasi tutti i filosofi greci che succedono alle primitive cosmogonie: queste ultime riannettentisi invece col principio causale, con la ricerca cioè di una causa del mondo. E, pur con la debita cura di evitare grossolani anacronismi, pur senza confondere le percezioni le percezioni * [*scritto in greco], come tante e tante volte le chiama Platone in molti dialoghi, nel senso di considerare Platone come un precursore di Berkeley, non vi è dubbio che esista un certo parallelismo tra i filosofi del mondo antico e i moderni, né potrebbe essere diversamente, anche a tacere che la varietà dei punti di vista sul problema filosofico non è né illimitata né arbitraria. La differenza con la filosofia antica consiste in ciò: che fintantoché il dualismo fra soggetto e natura consentiva una reciproca indipendenza, rimaneva remoto nella coscienza filosofica il problema del rapporto fra l’uno e l’altra, il problema della conoscenza. Dal giorno in cui venne mostrato che esse est percipi invece, il filosofo deve necessariamente ed evidentemente arrestarsi ad esaminare se in conseguenza la metafisica possa avere quella validità che i dogmatici le accordavano facilmente. E da qui era breve il passo per la transizione della speculazione assertoria a quella gnoseologica, ossia al problema della conoscenza: “Che cosa conosciamo dunque, e come?” Un colpo decisivo, che affrettò tale transizione, provenne dalla critica del principio di causalità. Quando venne mostrato che la causa non produce ma semplicemente precede l’effetto, tale dottrina si presentò è vero accompagnata da una conclusione scettica, ma si intuiva già che essa, avutasi ragione dello scetticismo, che non sarà mai una fase finale per lo spirito, avrebbe determinato conseguenze feconde pel progresso della filosofia. Da quel momento i metafisici intesero la necessità di un uso più rigoroso e con maggiori cautele della ragione, poiché emerse chiara la consapevolezza che possiamo facilmente cadere preda di sofismi e illusioni, dei famosi idola. Tutti questi lieviti, mentre la filosofia si manifestava ormai come problema, come gnoseologia anziché come costruzione non problematica, diedero origine alla filosofia critica, che ha in Kant il vero fondatore. In che consiste questa filosofia? Essa si fonda sul seguente principio, noto ai filosofi razionalisti e che in Kant diventa la base di un problema assolutamente originale: l’esperienza non può darci conoscenze né universali né necessarie. Egli lo enuncia così: “L’esperienza ci insegna che qualche cosa esiste in un modo o nell’altro, ma non che essa non possa esistere diversamente. Se dunque ci si offre una proposizione nel concepire la quale ricorra insieme col pensiero di essa la sua necessità, essa sarà un giudizio a priori”. E soggiunge: “In secondo luogo, l’universalità impressa ai giudizi dell’esperienza non è mai assoluta e rigorosa, ma solo relativa. Tale universalità esprime soltanto che questa o quella regola, per quanto abbiamo appreso finora, non ha trovato eccezioni. Se invece il giudizio è pensato come assolutamente universale, in modo da non ammettere come possibile la minima eccezione, esso non potrà provenire quindi dall’esperienza, ma da una sorgente del tutto particolare, cioè dalla facoltà do conoscere in anticipo. Pertanto la necessità e l’assoluta universalità sono gli indizi sicuri della conoscenza a priori e sono così strettamente connesse che l’una non può distinguersi dall’altra”. E dopo avere addotto come esempi di tali giudizi a priori tutte le proposizioni della matematica e quella secondo la quale ogni mutamento dipende da una causa conclude: “Ma non è necessario ricorrere a simili esempi per provare che l’esistenza di principi puri a priori nella nostra conoscenza è vera, poiché essi potrebbero perfino dimostrarsi indispensabili alla possibilità stessa dell’esperienza. Donde mai questa ricaverebbe infatti la propria certezza se le regole giusta le quali procede fossero empiriche e quindi contingenti? E come ammettere che in tal caso queste regole avrebbero valore di principi e di leggi fondamentali?”
Non è questa la sede per esaminare la legittimità di tale principio. Va però che, comunque, non costituiscono obiezione al medesimo i giudizi evidentemente tratti dall’esperienza, ma tuttavia necessari ed universali in forza del principio di contraddizione, ossia sol perché quanto affermiamo del soggetto nel predicato non è che una nota già implicita nel soggetto stesso, che il giudizio si limita a mettere in chiaro ed analizzare. Infatti la loro universalità e necessità dipendono soltanto dalla coerenza: se negassimo l’attributo noi ci contraddiremmo. Nel giudizio: “ Il corpo è esteso”, l’attributo “esteso” è gia contenuto nel soggetto, perché l’estensione è la nota fondamentale (anzi unica per Cartesio e tanti altri) del concetto di corpo. Sicchè se dicessimo: “Il corpo non è esteso”, ciò equivarrebbe a dire: “L’esteso che chiamiamo corpo non è esteso”, e non basta dare al giudizio la forma regolare che gli è propria perché la proposizione debba esprimere a forza qualcosa di compatibile e di logico. Giudizi del genere sono chiamati da Kant “analitici”e sono necessari e a priori solo per tale ragione. In essi, aggiungeremo, l’universalità è una conseguenza della necessità la qual, si ripete, ha per base esclusivamente il principio della coerenza, l’incompatibilità del contrario. E anche se le nozioni del predicato e del soggetto derivino dall’esperienza, pure si può senza l’aiuto di questa conoscere in essi se il predicato convenga o non al soggetto. Ma il valore di questi giudizi è puramente dichiarato, esplicativo: essi non fanno progredire la nostra conoscenza, il che avviene invece in tutti gli altri giudizi nei quali il predicato non è contenuto nel soggetto, ma vi si aggiunge in conformità con l’esperienza, sicchè il rapporto tra soggetto e predicato costituisce una sintesi. Se il soggetto è “la neve” ed io predico che essa è fredda, la mia conoscenza ha progredito, poiché nell’idea di neve non era implicita la nota del freddo, che ho ricavata dall’esperienza; l’esperienza potrebbe invece insegnarci che la neve, per ripetere il classico esempio di Hume, scotti come una fiamma. Che i giudizi sintetici siano istruttivi quanto gli analitici sono invece
puramente verbali e tautologici,era già noto agli scolastici i quali facevano,con altra nomenclatura,la distinzione fra proposizioni notae per se ovvero notae ex terminis (evidentemente corrispondenti a quelle che Kant chiamò analitiche)e proposizioni notae per aliud (evidentemente corrispondenti a quelle che Kant chiama sintetiche). Anche Locke (e molti altri con lui)distingue proposizioni frivole o verbali da proposizioni istruttive o reali:le prime rispondenti pure alle analitiche come le seconde alle sintetiche.
Per la scienza sono i giudizi sintetici quelli che contano.
Ma siccome in tali giudizi non si riflette che il rapporto tra soggetto e predicato quale lo abbiamo ritenuto nell’esperienza, essi sono contingenti ossia non necessari e mancano inoltre del carattere di universalità assoluta che, peraltro, costituisce evidentemente il requisito essenziale di ogni principio filosofico. Soprattutto riguardo al problema se di là dalla vita quale noi conosciamo, di là dall’esistenza fisica esista una vita e una esistenza ultrafisica o, come si dice in filosofia, metafisica nessuna ammissione può evidentemente apparirci valida se non sia a priori e con ciò se non sia universale oltre che necessaria.
In rapporto alla filosofia dunque per poter progredire e soprattutto per poter accertare la validità della metafisica occorrerebbe fondarsi su giudizi che siano nello stesso tempo necessari ed universali, quindi a priori come quelli analitici, ma nel contempo istruttivi come i giudizi sintetici. L’ideale insomma sarebbe di scoprire dei giudizi sintetici a priori. Se ve ne fossero, essi presenterebbero questi due requisiti: a) pel fatto di essere riconosciuti quali giudizi a priori recherebbero implicita l’impronta della trascendenza, poiché l’esperienza non può fornire secondo il principio sopra citato giudizi necessari e universali; b) la loro natura sintetica conferirebbe alla speculazione metafisica i vantaggi delle proposizioni istruttive e noi potremmo trovare in essi non solo una base solida per fondarvi la metafisica, ma altresì i materiali per costruirla.
Per Kant i giudizi sintetici a priori sono una realtà. Resta però a vedere come essi siano possibili, come mai la nostra ragione trovi in se stessa, completamente fuori della semplice coerenza, dei giudizi che rechino bella e preparata una congiunzione necessaria di qualche cosa con qualche altra cosa. La risposta alla domanda: “come ed entro quali limiti siano possibili i giudizi sintetici a priori” guiderà quindi alla soluzione del problema fra i problemi, e cioè quello concernente la validità della metafisica. Si impone per risolverlo un rigore cosciente, quale in precedenza le esigenze del pensiero, più sommarie, non avevano ancora intraveduto. Questo rigore cosciente Kant lo chiama Critica e deve consistere evidentemente, secondo quanto già detto, nel mantenere l’uso della nostra ragione entro i limiti puri della sua facoltà di conoscere a priori, senza deviazioni nell’esperienza, poiché è chiaro che in caso contrario non si tratterebbe di conoscere a priori. L’immagine muove da un punto di partenza puramente formale, dell’analisi logica; e nessuno si attende fin dove ci possa condurre. Naturalmente la soluzione potrà essere una di queste tre: a) scettica, se la critica ci condurrà alla conclusione che non è dato oltrepassare il punto di partenza puramente logico; b) costruttiva, se la soluzione mostrerà il potere nostro di trascendere siffatta base logica e di pervenire a una sintesi, ossia a risolvere filosoficamente il rapporto fra l’Io e il mondo che gli sta di fronte; c) metafisica, se una tale soluzione risulterà valida anche per concludere quanto a una realtà assoluta in connessione con quella espressa in tale rapporto.
E’ questo il modo originale con cui Kant prende posizione e il problema stesso dà all’opera in cui egli lo svolge il titolo di ”Critica della ragion pura”. Noi, dice egli, non conosciamo le cose; possiamo conoscere solo le loro apparenze, cioè i fenomeni. Quel che chiamiamo un oggetto infatti non è che un complesso di sensazioni (della vista, del tatto etc.) e le sensazioni appartengono a noi, non all’oggetto. L’oggetto, per quel che veramente è, come cosa in sé, resta in conoscibile per noi. Ciò che percepiamo è dunque per Kant – come lo era stato per Platone – il fenomeno di un oggetto corrispondente. L’oggetto come cosa in sé Kant lo chiama invece noumeno, vale a dire un “pensato”, un residuo al quale si perviene col pensiero pur senza poterlo veramente concepire (chè in tal caso conosceremmo direttamente l’oggetto e si avvererebbe la intuizione intellettuale di esso, cioè la diretta conoscenza dell’oggetto senza il tramite dei sensi, quale anche Platone aveva considerata forma suprema di conoscenza).
Quanto ai fenomeni, occorre distinguere in essi due elementi irriducibili l’uno all’altro: la materia e la forma. La materia di essi ci viene data, noi la riceviamo nell’esperienza attraverso i sensi ossia a posteriori, secondo le impressioni che le cose producono sulla nostra sensibilità. La forma invece si trova già preparata in noi a priori, in modo che niente può diventare oggetto della nostra conoscenza senza ricevere immediatamente questa forma.
La forma è dunque un elemento soggettivo: è il modo, determinato dalla nostra facoltà conoscitiva, in cui le cose devono apparirci. Questo elemento formale delle nostre conoscenze si rivela duplice: vi sono le forme della sensibilità e le forme dell’intelletto. Le forme della sensibilità, dette da Kant intuizioni pure, sono lo spazio e il tempo. Se gli oggetti sensibili sono estesi, se ogni cosa o fenomeno esteriore ha una determinata localizzazione, ciò avviene perché lo spazio è una forma della nostra sensibilità (senso esteriore). Inoltre, se tutti gli avvenimenti sono tra loro simultanei o successivi, se c’è un prima e un dopo, se ogni fenomeno occupa una posizione nel tempo, ciò avviene perché pure il tempo è una forma della nostra sensibilità e qualunque cosa noi possiamo conoscere la conosciamo in questa forma temporale (senso interiore: il senso esteriore, anzi, non è che “una provincia” del senso interiore). L’estensione e la successione, ciò che chiamiamo spazio e tempo, non sono dunque nelle cose stesse, fuori di noi, ma in noi.
La critica della ragion pura ci conduce poi necessariamente ad ammettere forme dall’intelletto, che Kant chiama categorie. Queste ultime sono i concetti costantemente presupposti, gli stampi intellettuali con cui noi pensiamo necessariamente le cose. La sostanza, la causa etc. non sono che forme del nostro pensiero, non sono che categorie. Se nell’esperienza vi sono delle cose, ossia i fenomeni, e se questi sono collegati in un rapporto di causa ad effetto, ciò avviene perché non possiamo conoscere alcunché se non secondo queste forme del nostro pensiero. Gli oggetti sensibili o fenomeni ci appaiono quindi nello spazio e nel tempo perché spazio e tempo sono le forme della nostra sensibilità. Inoltre noi ritroviamo nei fenomeni stessi, cioè negli oggetti dell’esperienza, le forme del nostro pensiero perché il loro modo di apparirci (sostanza, causa etc.) è il prodotto e l’opera ancora del nostro pensiero, il quale costruisce esso stesso il mondo dell’esperienza con la materia che gli viene offerta nell’atto della sensazione. Ciò che ci rappresentiamo in congiunzione siamo noi stessi che lo abbiamo congiunto; e questa congiunzione dei fenomeni e delle rappresentazioni di essi è una sintesi, cioè un prodotto dell’attività dell’intelletto. Infine quest’attività dell’intelletto, di cui la sintesi stessa è il risultato, presuppone una facoltà incosciente dello spirito che Kant chiama immaginazione produttiva, soggetta a regole a priori che sono per l’appunto le categorie, i concetti puri (ossia vuoti di ogni esperienza) dell’intelletto, nei quali assume la sua forma la materia, vale a dire il dato offertoci dall’esperienza. Le categorie dunque dettano leggi a priori ai fenomeni e quindi al loro insieme, cioè alla natura. Siccome la sintesi sudetta dipende dalle categorie, così tutti i fenomeni della natura debbono sottostare rispetto al loro modo di presentarcisi alle categorie stesse.
In tal modo Kant risolve il problema del come siano possibili i giudizi sintetici a priori.
3. E’ questa, abbiamo detto, una sintesi; essa fonde in una unità completamente nuova e imprevista, pur con quel senso di equilibrio e di quadratura che è proprio del sec. XVIII, le tendenze e le correnti del pensiero quali si erano venute determinando e opponendo nel flusso perenne della filosofia. Nella nuova concezione ciascuna di queste correnti non diviene che un semplice elemento, ma senza restare con ciò snaturata, sicchè è facile individuarle una per una in seno alla rivoluzionaria dottrina che subentra, tanto ne permangono trasparenti le venature, i caratteri. Soltanto il valore ne risulta ben diverso. Il contrasto fra pensiero ed esperienza , tra razionalismo ed empirismo, si è trasformato in un’armonica fusione dei due dati fondamentali: la materia e la forma, che vincolano inscindibilmente il fenomeno dell’intelletto, in modo che occorre il simultaneo concorso di entrambi perché si abbiano esperienza. Kant salva la natura fisica col toglierle l’indipendenza, col farne un protettorato dello spirito, e infonde a questo una potenza trascendente il processo logico, rendendolo costruttore con gli elementi di quella. Ma da siffatta interdipendenza deriva necessariamente una conclusione scettica quanto alla validità della metafisica. La ragione umana non può dunque oltrepassare l’esperienza. All’essere ragionevole umano è preclusa ogni legittima conclusione circa l’Al di là. Noi non possiamo risalire fino a Dio, fino alla sospirata certezza, colmando il dubbio espresso per tutta l’umanità nel monologo di Amleto, poiché il principio di causa non ha valore che nei limiti del mondo
sensibile e di più sappiamo ormai che questo stesso valore è meramente categorico: una semplice azione riflessa dell’intelletto in presenza dei dati empirici, e cioè meno ancora di quanto ne aveva lasciato Hume con la dottrina che la causa non produce ma semplicemente precede l’effetto: semprechè non si voglia riconoscere l’equivalenza tra una conclusione in base all’associazione delle idee, qual’è il rapporto causale per Hume, e la riduzione che Kant fa della causa a semplice categoria dell’intelletto. L’esistenza stessa di Dio è problematica quanto quella dei noumeni: noi non possiamo né affermarla né escluderla.
4. Ma Kant ha voluto e saputo superare la conclusione scettica; e proprio qui si vede di quanto egli abbia sorpassato la dottrina associazionistica sul rapporto causale. Che infatti tale conclusione sia sostanzialmente identica a quella di Hume risulta evidente. In ultima analisi la ragione non può conoscere altro che se stessa, poiché giudizi sintetici a priori riguardo alle cose in sé sarebbero possibili solo all’intuizione intellettuale, che è negata all’uomo. Ogni tentativo dunque di cogliere una connessione ultima e assoluta di tutti i fenomeni in un Essere supremo appare vano. Ma come spiegarsi allora la persistenza in noi del bisogno di trascendere la conoscenza sensibile? Perché mai, dopo aver riconosciuto che nel regno della ragion pura non c’è posto per la metafisica, continuiamo egualmente a credere malgrado tutto di poter oltrepassare i limiti del mondo sensibile e rinneghiamo così le nostre conclusioni teoretiche nello stesso momento in cui vi perveniamo? Per Kant la spiegazione si fonda sulla nostra stessa coscienza, la quale ci avverte che noi siamo anche esseri che agiscono liberamente nei riguardi morali. A quel modo che il dubbio, quel dubbio stesso onde ciascuno è tormentato, costituisce tale tragedia, una così sovrumana creazione da rivelare implicitamente Dio e da annullarsi, questa libertà del tutto estranea al meccanismo del mondo sensibile rivela da sola che noi, oltre che membri del mondo sensibile, siamo anche essere appartenenti a un mondo soprasensibile. La spiegazione dunque si trova nella nostra coscienza morale e la rinveniamo immediatamente non appena la ragione abbandona il punto di vista teoretico, conoscitivo, e diventa – Kant si è di una denominazione già in uso – pratica, ossia facoltà regolatrice dell’azione morale, potere morale. Dal punto di vista teoretico la ragione si vede limitata a se stessa; quando si fa pratica, essa si riconosce in intima connessione con una realtà trascendente e noi acquistiamo la certezza di un mondo intelligibile, di là da quello sensibile.
Lasciamo indovinare ai lettori quale ridda di critiche, di obiezioni, di accuse e recriminazioni abbia potuto suscitare questa dottrina. Il meno che se n’è detto fu che Kant si contraddiceva, che dopo aver disfatto rifaceva, e così via. Se vi si guarda con serenità la dottrina è chiara, perfettamente compatibile col resto del sistema di Kant, che eleva a livelli sublimi.
5. E’ in tal modo che la critica della ragione pura entra nel campo della filosofia morale. Vi entra però con un significato, un intendimento e un contenuto sostanzialmente diversi da quelli tradizionali, poiché la ricerca morale costituisce per Kant non un passaggio del generale al particolare, ma un momento essenziale del pensiero speculativo nella progressiva ascensione verso quel che egli chiamò il Primato della ragion pratica sulla ragion teoretica. Motivo principale di questa critica rimane infatti la ricerca della validità della metafisica e per una giusta valutazione occorre pensare che cosa fosse la filosofia morale, l’etica, avanti Kant e soprattutto immediatamente prima di lui. Ormai più che una speculazione filosofica la si sarebbe potuta chiamare una disciplina.
Bisogna tornare molto indietro, fino a Socrate, per ritrovare nella speculazione morale un momento della speculazione metafisica vera e propria allorché, singolare riscontro, veniva ricercato parimenti in concetti morali, nella virtù, nel bene, nel coraggio, pure con una metodologia critica, quell’elemento metafisico che si era perduto di vista con la venuta dei sofisti. Successivamente la ricerca morale si sottrae dal contatto coi problemi universali. L’etica consegue un’autonomia della quale finisce per compiacersi, e così si avvia attraverso l’eudemonismo ad astratte dottrine riflettenti le varie tendenze dei secoli che essa va oltrepassando l’uno dopo l’altro: felicità, bene, utile. Talvolta viene addirittura a fondersi con le concezioni sociali e politiche. Per Kant l’etica non costituisce soltanto il superamento dello scetticismo gnoseologico, ma è altresì il solo fondamento possibile della metafisica. Se si offre all’uomo una legittima metafisica, questa non può essere che la Metafisica della morale o, come egli la chiama, la Metafisica dei Costumi. Quale impressione avrà dovuto suscitare negli spiriti colti del settecento la parola nuova che si sostituisce alle dottrine del bene, dell’utile, della felicità: il Dovere! Il fine morale dell’uomo è ben altra cosa che un agire pel conseguimento della felicità: far del bene perché è dovere, non per inclinazione, questa sola è moralità. Si rivive, sia pure in un pacato clima intellettuale, la mistica impetuosa invocazione di Sant’Agostino: “Si aboliscano inferno e Paradiso, io sempre Vi amerò, o Signore!”. Né è serio giudicare, come non si è mancato di fare, questa concezione quale una semplice risorsa conciliativa, raggiunta per la necessità di trovare una conclusione. Kant ha seguito, fin dalla prima elaborazione della critica, nel fecondo decennio 1770-1780, lo schema delle facoltà tracciato sulla scorta di antecessori da Sulzer, adottando la tripartizione in facoltà conoscitiva, facoltà appetitivi, facoltà sensitiva, dotate ciascuna di proprie sintesi a priori. Quelle della facoltà conoscitiva sono i giudizi sintetici a priori, costituenti il problema della Critica della ragion pura (cioè teoretica). La sintesi a priori della facoltà appetitivi consistono invece nel rapporto tra la volontà e l’azione, e precisamente nella assegnazione necessaria e universale alla volontà degli attributi morali (buono, cattivo): si tratta dunque di sintesi assolutamente pratiche, del tutto distinte da quelle gnoseologiche. Esse formano l’oggetto della Critica della ragion pratica (anch’essa naturalmente pura). Quanto alle sintesi a priori della facoltà sensitiva, sono queste i giudizi estetici rispondenti agli attributi di bello e brutto da un lato e, dall’altro, a quelli di concordanza e discordanza con un fine. Essi dànno origine alla Critica del giudizio, l’opera profonda che chiude il ciclo e delle quale dovremo qui occuparci.
6. Resta a vedere quale sia il rapporto fra Critica della ragion pura e Critica della ragion pratica. Resta a vedere cioè: a) in che consista il superamento del risultato irrimediabilmente scettico della ragione teoretica; b) se vi sia incompatibilità fra le conclusioni della ragione teoretica e i postulati di quella pratica.
a) La critica della ragion pratica, ossia dell’azione morale, riesce a superare il limite constatato nell’uso della ragione teoretica riguardo alla conoscenza del mondo soprasensibile non già mediante nuovi giudizi sintetici a priori validi per estendere la nostra conoscenza – il che evidentemente non potrebbe fare – ma semplicemente facendo appello alla coscienza morale. La nostra coscienza morale ci avverte infatti di contenere una legge sui generis, necessari e universale, quindi assolutamente a priori: la legge morale. In verità, la ragione umana non può esplorare questa legge fino alle sue origini. Noi ci rendiamo conto della sua essenza soprasensibile, ossia puramente intelligibile, ma senza poterla veramente comprendere
Ci basti però, dice Kant, di comprenderne l’incomprensibilità: con ciò stesso noi ne riconosciamo implicitamente la pertinenza a un mondo posto fuori di quello sensibile, a un mondo intelligibile del quale non possiamo non far parte, al tempo stesso che facciamo parte del mondo sensibile, in quanto la legge morale promana esclusivamente dalla nostra volontà, con perfetta autonomia, in virtù di un categorico vero e proprio di cui essa è dotata. Questa legge morale è la legge del Dovere, al quale sacrifichiamo interessi, piaceri, felicità. Che una legge siffatta, necessaria e universale, non possa derivare se non dalla nostra volontà (volontà pura, non quella empirica) è evidente: il dovere morale è un volere necessario. Se la moralità fosse imposta mediante una legge impartitaci da altri, e se la legge non contenesse in sé il proprio fine, essa non sarebbe vera moralità, ma legalità, e quindi mezzo e fine. La moralità invece è un principio supremo, la cui forza consiste nella sua categoricità, ed è quindi fine a se stessa. L’universalità e la necessità della sintesi a priori che la ragion pratica pone come legge morale presuppone dunque la autonomia della volontà ed esclude qualsiasi eteronomia. Anche se si concepisse la legge morale come dedotta sia pure da una legge divina, escluso che la prima si subordini alla seconda per timore o speranza (appunto perchè ciò costituirebbe eteronomia), la subordinazione non potrebbe dipendere che dal convincimento della bontà morale di questa legge divina. Ma ciò significherebbe che la legge divina sia stata riconosciuta conforme alla legge morale, e pertanto anche in tale estrema ipotesi il principio supremo consisterebbe nelle legge morale stessa e non nella divinità. L’atto con cui una volontà dà a se stessa una legge, determinando con l’atto stesso tutta la serie degli effetti, non può essere considerato secondo il principio delle leggi naturali come effetto a sua volta di una causa. Questo carattere viene
detto da Kant “causalità mediante libertà”, e ciò significa che la volontà ha il potere di dar origine essa stessa alla serie causale come suo primo principio. L’autonomia implica quindi ed esige che la volontà non sia assoggettata al nesso causale dei fenomeni, ma sia invece libera. Così il principio supremo della vita morale è la libertà. Ma si ha veramente libertà nell’attività umana? La critica della ragion pura dimostra che non si ha libertà né nell’esperienza né nella conoscenza teoretica di essa, poiché tutti i fenomeni sono sottoposti invariabilmente al principio categorico di causalità: era questa del resto – astrazion fatta dalla categoricità – la dottrina rigorosamente determinata cara all’Illuminismo tedesco e in particolare a Wolff, e appunto per questo l’essenza della vita morale non poteva essere rinvenuta nell’esperienza; ma la stessa critica, pur escludendo la libertà nell’uomo in quanto essere sensibile soggetto alle leggi della natura, ammette come possibile la libertà per l’uomo in quanto essere intelligibile.
b) Peraltro la critica della ragion pratica supera quella della ragione teoretica, dalla quale non deve né attendere la convalida né temere una confutazione. L’apriorità della legge morale, dice un noto scrittore, non potrà mai essere teoreticamente né dimostrata né confutata. Può solamente essere creduta. Anzi, deve essere creduta, poiché il dovere morale esiste, è un fatto assoluto della coscienza morale. Di più il credervi è per la ragione umana una necessità assoluta. Non si tratta quindi di una conoscenza che esiga dimostrazione: si tratta di fede. Se si crede alla necessità e universalità della legge morale, si deve credere anche alle condizioni che la rendono possibile. Queste condizioni sono appunto la libertà e il mondo soprasensibile. Noi dobbiamo quindi credere che la volontà sia capace di darsi una legge da se stessa per le proprie azioni e di osservarla; dobbiamo cioè credere che la volontà sia libera: dalla convinzione categorica del dovere si arriva così alla certezza morale della possibilità, ossia alla libertà: Puoi perché devi. Orbene ciò implica la realtà di un mondo soprasensibile di cose in sé, al quale noi pure apparteniamo appunto in virtù della nostra libertà perché quest’ultima, non trovandosi nel mondo sensibile, deve necessariamente rinvenirsi in un mondo soprasensibile. Dalla certezza che la nostra volontà sia libera scaturisce quindi la certezza della cosa in sé, che nella Critica della ragion pura era risultata puramente problematica, nel senso che non si avevano ragioni né per ammetterla né per respingerla, il che conduceva a una soluzione scettica gravata dal “mostruoso” di un mondo esclusivamente fenomenico. La morale è quindi l’unica via per cui si possa giungere a una conclusione affermativa circa il problema della natura soprasensibile delle cose, anche se non si possa qui trattare di dimostrazione, ma solo di credenza, di fede. Comunque in questo superamento della ragione teoretica, in questo primato della ragion pratica si rende legittima la conclusione che la fede a priori della ragion pratica conduce a una metafisica del sovrasensibile che culmina nell’idea della divinità, e cioè alla metafisica della morale, alla metafisica dei costumi, di cui i “Fondamenti” che presentiamo costituiscono la base.
7. Questi “Fondamenti” offriranno allo studioso un efficace mezzo di affinamento intellettuale. Da cima a fondo, senza arresti, i giovani si troveranno in queste pagine come in una ben fornita palestra, nella quale non un attrezzo manchi per ogni più efficace ginnastica, salvo la predella pel salto. Ma non è solo ciò che deve attirare al libro e indurre a ritornarvi. Nelle sue piccole dimensioni esso è un immenso monumento del pensiero: noi ascendiamo man mano a livelli sempre più elevati che raggiungono, specialmente nell’ultima parte, il sublime. Come nel seguire l’analisi tomistica il pensiero corre involontariamente alle polifonie di Palestrina,
così attraverso quella kantiana ci si sente vicini a Bach. Su Kant è imperniata tutta la filosofia posteriore, non esclude quella che si rifiuta di riconoscerlo; ma certo, quanto allo specifico contenuto, le dottrine di lui appartengono da tempo solo alla storia: si è finito col dover riconoscere che lo stesso suo problema della conoscenza non era nemmeno un problema, non ne aveva che l’aspetto. Viene da chiedersi quindi se e quali vere permanenti acquisizioni abbia egli lasciate all’umanità. La prima e massima fra tutte si rivela ogni giorno meglio – non è qui il caso di cedere alla solita oziosa domanda se ciò sia stato un bene o un male – quella di avere infuso al pensiero una forza che giammai potrà venirgli a mancare: la consapevolezza di sé, un intrinseco acume il quale lungi dall’esaurirsi ed estinguersi, non fa che crescere e dilatarsi. Lo si vede bene proprio oggi, se ci si sofferma a considerare quali progressi in profondità – anziché in estensione come sempre erasi cercato finora – abbia fatto la filosofia in quest’ultimo ventennio di silenzioso insospettato travaglio. Mentre se ne proclamavano il disorientamento e la decadenza, mentre le convinte previsioni erano per un fatale suo avviarsi a inevitabile sterilità, pena meritata per novelli Prometei, tutto un fresco pensiero con acutezza ed accorgimento ha lavorato in senso costruttivo inspirandosi a sano ottimismo e ad immensa fiducia nelle proprie energie. Si sono delineate, ricche di nuovo contenuto anche se a dire il vero non sempre né del tutto inedite, le feconde concezioni di Persona, di Vita, di Esperienza, intessute sulla riaffermata dottrina di una verità in perenne cammino, nel clima di un pensoso storicismo; nuove scuole operose sono sorte o vanno sorgendo in molti paesi: e quanto citare oggi la scuola di Milano! Quel che d’immortale contenne l’apostolato di Kant s’incarna in questo superbo movimento contemporaneo e ne illuminerà le ulteriori mete.
8. Due parole infine riguardo al testo e alla traduzione. Abbiamo cercato di farla anzitutto chiara, poi in lingua italiana. Quanto alla fedeltà, prima abbiamo voluto essere fedeli al pensiero e poi alla forma. Si deve resistere e reagire alla scrupolosità di voltare addirittura non solo l’espressione ma la stessa sintassi, considerando ogni proposizione con la venerazione che si ha per prezioso cimeli, e ciò quanto meno nei casi in cui una tale preoccupazione ingeneri perplessità e incertezze.
Lo stile di Kant è qui spesso soffocato dalla densità e dalla qualità del pensiero, nel che esso differisce, e non certo in meglio, dalla cristallina chiarezza dell’esposizione quale si ritrova nella Critica della ragion pura e dalla perfino snella eleganza di opere ancora precedenti. Il periodare è quasi sempre monumentale e massiccio, il che del resto i caratteri e l’essenza della lingua tedesca possono permettere senza produrre troppa oscurità o richiedere troppo sforzo in chi legge. Ma nella nostra lingua, priva dei riferimenti offerti dalla declinazione dei casi, il voler riprodurre tale struttura a qualunque costo non potrebbe non creare difficoltà che finirebbero con l’alienare i lettori meno tenaci, e noi vorremmo invece che tutti quelli che prenderanno il volume non lo abbandonino prima di avere appreso ad amarlo, prima di sentirsi indotti a ricercare quegli altri che lo precedono e lo seguono. Di quanto in quando poi il modo do porgere si presenta qui, per dirla con Rabelais, “plus baveux que ung pot de mostarde”; e noi abbiamo cercato di tener conto di tutto ciò nel nostro umile lavoro.
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