LA SICILIA A.XXIII, n.339, 9 XII 1967
AGLI ANTIPODI DI JOYCE
“le dolci macchie lunari” e i giuliettislazzuli” di Antonio Pizzuto
L’isolamento è la sua condizione naturale. Non ama i gruppi letterari, le associazioni di cultura, i circoli intellettuali. Un autore originale , del resto, è difficile che possa avere dei seguaci, degli imitatori. Tende a chiudersi nel cerchio delle sue verità e il suo mondo suggestivo, carico di perfezioni, rimane inaccessibile, remoto nella sua straordinaria comunicabilità.
Non crede nelle correnti, rifiuta le mode. Si infastidisce se tentano il paragone fra la sua opera e il “nouveau roman” francese. Respinge perfino l’accostamento con Joyce.
Potrebbe avere un vezzo, una civetteria. Ma Antonio Pizzuto è un’artista privo di debolezze. Umano naturalmente, ma senza compiacimenti eccessivi, senza abbandoni estetizzanti. “Ritengo di essere agli antipodi di Joyce – spiega - . Esiste fra me e Joyce una differenza sostanziale: Joyce attribuisce un’importanza assoluta all’elemento psicologico, all’indagine introspettiva, all’analisi intima. Per me l’elemento psicologico, l’indagine introspettiva, l’analisi intima sono nulla. Pura astrazione. E le astrazioni, nella letteratura contemporanea, diventano pettegolezzo. Dal punto di vista filologico, al contrario, posso giustificare l’accostamento con Joyce: lo stesso amore per le parole nuove, la stessa necessità di pulizia linguistica, di nitore. La lingua italiana ha bisogno di essere rinsanguata, di ricevere linfa viva. I nostri autori quando scrivono un romanzo, si servono di quattrocentocinquanta vocaboli al massimo. Ne deriva una prosa rarefatta, malata, estenuata”
Nei romanzi di Antonio Pizzuto si incontrano parole affascinanti di recentissimo conio, come “giuliettislazzuli” il cicaleccio inconfondibile che filtra attraverso una parete dalla camera di due sposi in luna di miele. (“ho dotato di un suffisso prezioso un nome carico di suggestioni antichissime”); come “lamprà” da Tucidide. Tucidide accompagna “lamprà” a Seléne: un qualificativo della luna. Seléne è lamprà”. E cosa è dunque la bianca sposa se non “lamprà”? “Lampra” suggerisce l’immagine di un grande bagliore”).
Non mancano le immagini. Acute e sottile. “Le dolci macchie lunari”, che sono i gomiti delle donne: le “palpebre sbugiardate”, le palpebre dei bambini cioè che sbattono ritmicamente, in maniera un po’ isterica, quando i grandi hanno scoperto le loro bugie; le “pecore miopi” per quello loro brucare ossessivo, tutte chine raccolte sull’erba; le “galline corrono con le mani in tasca” per quello loro goffo procedere su una discesa con il corpo proteso in avanti e le ali aderenti e sbattute.
Antonio Pizzuto, il questore a riposo, è tornato a Palermo, la sua città, solo per pochi giorni: il tempo di presentare il libro di un amico, di partecipare a un convegno di studi filologici, di prendere parte a un dibattito sulla sua opera.
È la prima volta che rinuncia, in qualche modo al suo isolamento. Il desiderio di rivedere la città vecchia, carica di storie e di ricordi – la Palermo di via Maqueda, dei Quattro Canti, della Cattedrale, dove lui è nato, ha vissuto indimenticabili esperienze dell’adolescenza, ha realizzato la prima verifica con la realtà – ha annullato il disagio, l’insofferenza, il fastidio dei contatti superflui, delle osservazioni distratte che sono di ogni occasione un po’ intellettuale e un po’ mondana.
Pizzuto mancava da Palermo da trentasette anni. Una lunga pausa di silenzio, a parte un soggiorno affrettato tanto tempo fa. Di Palermo aveva una necessità corposa, quasi fisica. Il bisogno di rivedere il grigio spento del bugnato sulle facciate delle case patrizie in disfacimento, di trovare il profumo sfatto delle zanzare e quello dei gelsomini che scoppiano di calore, di riprovare la dolcezza eccessiva, con un leggere senso di nausea, delle paste di mandorle e della frutta candita.
Un mondo di colori, di odori , di sapori da riscoprire. Una nostalgia proustiana. Anche se lui Proust non l’ama troppo.”Le associazioni della memoria – è solito dire – hanno il valore di una registrazione, di una fotografia. E lo scrittore non deve essere un fotografo”.
A Palermo ha voluto rivedere i Quattro Canti .
“E’ stata un’emozione fortissima – spiega Antonio Pizzuto – il mio sistema nervoso è molto fragile: credevo di morire, piangevo. Ho voluto rivedere la casa in cui sono nato. Gli amici avevano preparato l’incontro con i nuovi inquilini: così ho potuto visitare i tre piani del palazzo”.
Le emozioni lo sfibrano, i viaggi lo affaticano. Antonio Pizzuto ha settantacinque anni. Cammina, appoggiando il corpo secco, a un bastone. Le mani, alle volte, sono scosse da un tremito insistente. A Palermo adesso è ospite una delle figlie . Trascorre le giornate in un grande salotto davanti alla luminosa finestra- veranda che si affaccia sui tetti della città. Una intera parete è destinata alla libreria. Naturalmente ci sono tutti i libri di Pizzuto: dalla “Signorina Rosina”, a “Si riparano bambole”, alle “Paginette”. Pizzuto legge un capitolo delle “ Paginette” – una lassa dice lui – e si commuove. Gli occhi sono pieni di lacrime, la voce è incrinata.
Fa una pausa e si scusa. Asciuga gli occhi con un fazzoletto infantile, tutto orlato di azzurro, e riprende la lettura. Poi parla del suo nuovo romanzo.
“Non posso dire molto – afferma e c’è una punta di malizia negli occhi furbi – nemmeno il titolo. Voglio fare alcune anticipazioni comunque: ho annullato i personaggi, nel senso che li ho privati di ogni attributo, perfino del nome. Naturalmente anche in questo libro c’è della gente che mangia, che parla, che viaggia, che compie degli atti umani. Ma non è gente fermata in un gesto, avvilita da un atteggiamento specifico, circoscritta nella precisazione di un fatto. Il fatto non mi interessa. Il fatto è un “accidens”.
“Io faccio una distinzione profonda fra raccontare e narrare. Raccontare significa esporre appunto una serie di fatti. Il fatto è rottura, azione, movimento. Ma, quando viene raccontato, si pietrifica. Trova una sua destinazione immutabile in un tempo limitato. Perde il suo aggancio con la realtà che è un fluire incessante, continuo e si congela. La narrazione invece è concretezza: è la sostanza che, modellata dalla forma, fornisce lo stile”.
Non crede nella validità del diavolo, “un espediente macchinoso e sorpassato”, né ritiene che si debba più parlare di contenuto “se c’è un contenuto l’arte diventa veicolo”, né dà un particolare
valore alla punteggiatura “ una trovata al servizio della retorica. Ho abolito il punto esclamativo perché la sensazione di orrore, di angoscia o di meraviglia intento suscitarla con le parole e le immagini”.
“ Il momento poetico della mia opera consiste, credo, nello stupore – prosegue Pizzuto. – L’ho espresso, lo stupore, con una donna che muore spalancando la bocca. Questo atto mi sembra terribile, efficace. Evidentemente la donna, morendo, vede qualcosa di stupefacente. E prova meraviglia,sgomento. DA qui quel suo gesto scoperto, impotente”.
I, romanzo che sta scrivendo l’ha iniziato il quattro aprile scorso. Pensa di terminarlo il prossimo natale. Lavora lentamente, con fatica; il pomeriggio rielabora la stesura che ha compiuto, di getto, al mattino.
“Ho bisogno di armonia, perché “sento” la musica. Soprattutto quella di Strawinsky. Credo anzi di avere delle affinità con Strawinsky. Me lo sento vicino per la sua poliritmicità, lo adoro. Ma amo anche gli altri: Beethoven, Pergolesi, Bach, tutto il bel canto italiano….”
BIANCA CORDARO
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