martedì 5 aprile 2011

Impopolarità di Strawinsky (radioconversazione, 1951) di Antonio Pizzuto

Impopolarità di Strawinsky
(radioconversazione, 1951)
di Antonio Pizzuto
[Pubblicato in «Fermenti», a. XXVII, n. 216 (n. 4, 1997), pp.49-51]
Igor Strawinsky non è riuscito a farsi comprendere se non gradualmente, superando via via se stesso. Ogni sua nuova opera è stata accolta con invariata ostilità, ma è valsa a far apprezzare quelle precedenti, e ha dovuto a sua volta attendere la successiva per guadagnare i consensi.
Le critiche mosse contro ogni nuova creazione di lui sono quasi identiche e facili nella spontaneità demolitrice; ma concludono sempre con spunti apologetici per quelle musiche strawinskyane che al loro apparire erano state disapprovate. Il progresso insomma, pur trovandoci diffidenti, induce a riconsiderare con smemorata benignità le pagine musicali in un primo tempo discusse.
Da quali cause ha origine questo nostro atteggiamento verso Strawinsky? Non sempre siffatti giudizi negativi si fondano su ragioni estetiche tali che possano giustificare la loro severità. È forse lecito dunque pensare all’influenza di moventi psicologici che agiscano più o meno inconsapevolmente in noi.
Mentre va maturando nelle coscienze una ineluttabile trasformazione che implica l’abbandono del romanticismo, questo, sia pure con un certo nostro pudore, è tuttora vivo e operante, anche in quanti di noi avvertono la necessità di liberarsene. Ci troviamo impegnati in un conflitto di orientamenti spirituali che richiama al pensiero quello manifestatosi agli albori dell’Ottocento, allorchè l’illuminismo dovette cedere alla tendenza romantica. Allora ne risultò la visione della vita dolorosa, di cui furono espressione il Foscolo e il Leopardi. Oggi Igor Strawinsky si è affrancato dal romanticismo, e da ciò il nostro scontento, la nostra istintiva avversione per chi nega inclinazioni sentimentali divenute nel tempo forti come dogmi: avversione che si confonde con la perplessità. L’Ottocento comprese immediatamente i due poeti e li amò poiché rinvenne nel loro canto una compiuta risonanza coi propri palpiti. Per noi accade l’opposto coi due grandi novatori dell’arte contemporanea: Joyce per la letteratura e Strawinsky per la musica – due artisti di sorprendente affinità – poiché essi non esprimono la nostra crisi, ma sono gli interpreti di un deciso trapasso, donde il loro ottimismo creativo contro il pessimismo della poesia ottocentesca.
Strawinsky ci turba perché ci delude: pretendiamo che egli appaghi la nostra aspettativa mentre egli incomincia proprio col respingerla. E deve, da artista, respingerla se ciò sente: nessuna aspettativa è legittima nel progresso dell’arte, la quale si rivela come un perenne divenire estetico, poiché non esistono canoni immutabili cui essa debba conformarsi. I princìpi che ci guidano per intendere l’opera d’arte non hanno che apparentemente il valore di postulati, e lungi dal condizionarla ne derivano, fino a quando la realtà artistica poi non muti.
Strawinsky sta fuori del catechismo, non solo nella forma ma anche nella sostanza della sua arte. La storia della musica ci schiera davanti molti riformatori, specie nei tempi più recenti. Il carattere che essi hanno avuto in comune è stato quello di una creatività soggettiva, diciamo così «dal di dentro», anche quando la rivoluzione compiuta dal genio si sia imposto come limite l’interpretazione dell’anima e delle tendenze universali in quel dato momento. Si consideri per esempio la riforma wagneriana: nell’opera di Wagner è sempre presente un io che non consiste, si badi, nello stile, ma nell’essenza della sua musica. Un consimile io possiamo ritrovare quale sostanza fondamentale nelle creazioni musicali degli altri grandi maestri tedeschi, italiani e francesi, con contate eccezioni, quali il Palestrina e G. S. Bach. Orbene, Strawinsky si riallaccia a queste eccezioni dipartendosi dagli altri musicisti. In lui, a simiglianza di questi due sommi, la musica si manifesta non come la proiezione di una sensibilità puramente soggettiva, ma come una realtà assoluta raccolta in uno stato di grazia, non come creazione ma come creatura. Strawinsky coglie il fantasma sonoro così come gli si manifesta, di là dagli schemi della razionalità e quindi con rischio, e la sua musica è storia. Potremo sì analizzarla, ma sarà un’analisi di espressioni e di modi, non dell’essenza che è irraggiungibile. E ci limiteremo ad ascoltarlo ma senza una nostra partecipazione che abbia l’energia di dominare le inclinazioni, questa musica non potrà apparirci che come sensualismo e come poliritmicità pura.
La sostanza però è ben altra: questa musica non è sensibilità che si articoli in espressioni di arte, ma si rivela come vita che si impersona, come l’accoglimento di un trascendente fluire: e Strawinsky né da tangibile conferma col suo schietto attingere alle fonti popolari o al canto che le emula di un Pergolesi, di Rossini etc.: caratteristica questa  che non dovrebbe condurre all’affermazione che l’arte di Strawinsky consista nel connubio di un contenuto con una forma poiché, a considerarla un po’ più a fondo, la natura dell’arte strawinskyana potrebbe definirsi piuttosto una sostanza forma.
La sua musica è dunque esperienza, ricerca, adeguamento della musicalità alla sua espressione. Ci si presenta, per dir così, verticalmente anziché in senso orizzontale: sono lame di musica, non onde musicali. Ed ormai, nel tempo nostro che trasforma i problemi in problematicità, quando l’arte ci appare un principio puro ed assoluto, mentre le forme concluse vengono considerate come astrazioni, non possiamo più giudicare coi criteri di una volta.
Strawinsky fa pensare al daimònion socratico. Ne ha l’ironia, quell’ironia che suscita in noi il senso del paradosso. Ma la paradossalità, più che esser congenita nell’opera d’arte, è l’effetto di una nostra assuefazione bruscamente interrotta. Perfino Beethoven, si sa, fu tacciato di paradossalità, e non una sola volta. Molte composizioni di Riccardo Strauss furono paradossali e non lo sono più. Quanto a Strawinsky, la sua paradossalità consiste per lo più nel grottesco, che è scissione, bivalenza, bifocalità. Un esempio familiare ne offre il notissimo finale di «Chez Petruska», con la sua negata cadenza e con quel suo ruggire belando, brutalmente mozzo. Anche queste battute furono, ma non sono più, paradossali. La musica strawinskyana è un continuo svolgimento: matura in noi e con noi.

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