“Ove Platone, che Soren, Misilmeri o Tagaste”*
Omaggio a Cosmo Guastella
(Misilmeri 28/1/1854 – Palermo 11/09/1922)
Con scritti, opere e lettere di Antonio Pizzuto su Cosmo Guastella
a cura di Franco Ciminato
Da: Pizzuto parla di Pizzuto, a cura di Paola Peretti, Lerici, Cosenza, 1977
D. Insisterei sulle concezioni filosofiche cui lei si rifà e che hanno un fondamento per lei…
R. Io sono stato l’ultimo allievo di Cosmo Guastella. Guastella è uno sconosciuto ora, ma è il più grande filosofo che noi abbiamo avuto, non è certo un Benedetto Croce o un Gentile che possono ridarci questa dignità di pensiero. Ora, io ho modificato in qualche modo il pensiero di Guastella, e quello che è strano e veramente singolare è il fatto che io, dopo essere stato come… posso dire “una ancello”?... come un ancello a pendere dalla sua parola, appena spentosi lui, mi è venuta fuori la rivoluzione. Appena spentosi Guastella, nel settembre 1922, molte mie visioni, molti miei fantasmi ebbero un cambiamento singolarissimo. Quasi quasi ne avrei avuto una sorta di rimorso, ma io che ci posso fare?
D. In che consiste la rivoluzione di cui sta parlando?
R. Se tu avessi la pazienza di prendere in mano Guastella, ti accorgeresti del passo avanti che ho fatto io su Guastella. Perché vedi, Guastella ha il torto di dire, di impiantare il problema cosi: ‹‹ Quali sono i limiti e l’oggetto della conoscenza apriori ››. ‹‹Dire conoscenza e apriori ›› è…..
D. …..un apriorismo.
R. Un apriorismo, si, proprio, che non ha nessun diritto…. E questo è il punto per il quale io ho dissentito immediatamente.
D. Quali sono, invece, quelli sui quali concorda con Guastella?
R. I punti sono quelli dello spazio e del tempo. E quindi, tutta la sua dottrina del realismo, del concettualismo….. perché in sostanza, Guastella dice questo, che, secondo lui, tutto quello che c’è di affermabile nelle cose, di asseverabile della cose, è il famoso ‹‹esse est percipi ››. Ma questo ‹‹esse est percipi ›› è condizionato soltanto a una categoria, cioè a dire a quella dei giudizi di somiglianza. Or, il giudizio di somiglianza appartiene a me, non appartiene alle cose, è vero? Come quando noi vediamo una scena alla televisione e diciamo: ‹‹ Quello assomiglia allo zio Beppino, quella assomiglia alla zia Concetta, ecc. ››. Questo capita tutti i giorni. C’era (chi c’era?) ….. Mirbeau, che parlava di quelli che assomigliano alla gallina, che somigliano al pollo, che somigliano a un animale. E questo lo vediamo altre volte: un irlandese ha quella faccia caratteristica….. Guastella, dunque, dice che i giudizi necessari sono quelli che riguardano i rapporti di somiglianza, e, quindi, anche di dissomiglianza, e quindi tutta la matematica. Kant che voleva? Voleva fare una struttura filosofica che somigliasse alla matematica, quello che voleva pure Spinoza, quello che voleva pure Cartesio, quello che volevano tutti quanti, e che non si può avere. Come io vorrei avere la Rolls Royce e…..
D. Potrebbe specificare più esattamente cosa intende per criterio di somiglianza?
R. Il criterio di somiglianza è un rapporto diretto fra l’oggetto (quel che io chiamo l’oggetto, è chiaro, possiamo anche intenderlo nel senso del Berkeley, nel senso moderno ‹‹ esso est percipi ›› ), fra l’oggetto e le impressioni che questo oggetto produce in noi. Quindi, che cosa significa dire che quella che vuole salire è la zia Teresa? Non significa niente. Questo è il punto dove si è fermato Guastella volendo dire che i limiti e l’oggetto della conoscenza apriori sono i giudizi di somiglianza. Ora io questo, francamente, non l’ho potuto accettare, anche perché poi per lui la somiglianza era una azione riflessa del cervello. Credo che, da uomo grande, poi se ne sarà accorto. Ma il libro è rimasto, sai? Il libro una volta che è fatto, non appartiene più all’autore….. Nel libro è rimasto. È strano: io che ho riverenza assoluta, come per mio pare, per Guastella, il giorno stesso che lui è morto ho fatto questa apostasia. Senza volerlo, sai? Del resto, a studiare un po’ la filosofia si hanno delle sorprese grandiose. Io ricordo, per esempio, quando ho finito di leggere Kant. Io me lo son letto in originale tutto quanto, e quando ho finito di leggere la ‹‹ Critica della Ragion Pura ›› io ho detto fra me e me ‹‹ Bhe? Chi sa quanti decenni ci saranno voluti prima che qualcuno capisse? Quanto tempo ci sarà voluto perché potesse essere compreso veramente questo suo pensiero nelle sue parti grandiose? ››. Il giorno appresso Hamann ha fatto una critica completa…. Cioè a dire: la critica del noumeno è stata la base sulla quale è sorto l’idealismo, vero? E questa è dovuta a Hamann, che era un impiegato di dogana, per dire, che si fa presto a riconoscere una cosa.
LA MORTE DEL FILOSOFO , da : Sinfonia 1923, Mesogea, Messina 2005
… e venne il giorno in cui il grande filosofo si sentì stanco. Dopo avere scoperto tutte le illusioni dell’intelletto, una immensa stanchezza lo assaliva e lo inchiodò, incapace di aprire bocca al vecchio tavolino di lavoro, coperto di manoscritti e di pochi libri logori e sdruciti. Il margine del vecchio tappeto di tela incerata, consunto dalla manica che vi aveva sfregato sopra correndolo più che un tarlo, era ormai lacero e lasciava intravedere il legno bianco che, come il dorso di un asino, aveva portato si a lungo sulla groppa paziente tanta immensa scrittura. La dea Verità, apparsa al pensatore nella sua prima gioventù, rischiara quella stanzetta da lavoro della sua luce purissima e, sotto quei raggi, tutte le apparenza prendono un altro aspetto. Abbasso, la via cittadina, piena di vita tumultuante, risonante della grida dei venditori ambulanti e degli strilloni dei giornali, con le muraglie ricoperte di mille avvisi, con i passanti frettolosi, che guardano appena, mentre i cavalli sferzati pigliano il galoppo o drizzano le orecchie all’avanzarsi di un pesante autocarro. E intanto lassù, in un’atmosfera silente e tranquilla come le profondità del mare, quel piccolo vecchio curvo, dalla barba candida, dagli occhi fiammeggianti, sta, con la testa reclinata e con lo sguardo ancora meditabondo, dimentico e dimenticato. I suoi colleghi dell’Università amano portare a spasso i loro grossi cervelli, infarciti fino all’orlo di innumerevoli dottrine altrui. E anche possibile ammirarli nei teatri, alle conferenze, e nelle eleganti e ben retribuite edizioni. Il loro nome autorevole vale più che una guida cortese al lettore benevolo: ma egli, purtroppo, non ebbe dalla sorte né tempo né voglia di andare incontro a quella società che rappresenta e che interpreta: né ebbe editori. L’opera sua fu pubblicata col ricavato della vendita del vigneto paterno. Essa non ebbe lettori perché troppo vasta e profonda. Anche i critici mancarono, o si limitarono a rimproverare l’autore di non avere diffuso le sue teorie a mezzo di riviste. Gli scolari sapevano benissimo imitare i suoi gesti e il tono della sua voce, ma quanto al resto, non leggevano le sue opere: essi si accontentavano di dimostrare la loro fervida ammirazione pel maestro con parole di entusiasmo, lasciando traboccare la piena dei sentimenti di affetti, concentrando, anzi, in questi tutta la loro attività di discepoli. Sui loro tavolini da studio, intanto, quelle opere dormivano intonse sonni tranquilli e incanutivano sotto la polvere. Fu soltanto dopo la sua morte che i più autorevoli si misero in cerca degli scritti che il maestro aveva lasciato, oltre i sette grossi volumi, già pubblicati. E fu ricerca affannosa. Il maestro moriva lasciando inedito l’ultimo fascicolo dell’ultima sua opera. Altre carte erano sparse dappertutto: appunti di pagine di lette e rilette da richiamare, schemi, abbozzi. Tutti gli occhi si appuntarono su questi scritti ignoti. Da ogni dove piovvero alla vedova offerte di servigi di collazione, di selezione, di riproduzione. E veramente sembrava di assistere a un pranzo, quando la padrona di casa o il vecchio nonno, alla fine, tirano fuori una bella bottiglia e si ingegnano di toglierne il tappo: tutti gli occhi convergono su quella mano privilegiata e ne seguono, con malcelata impazienza, gli sforzi, quasi paralizzandola nella manovra con la loro intensità. Il più impaziente grida: ‹‹date a me ››, e ciascuno anela di potere far lui il tentativo di aprire la bottiglia, anche e è astemio. Sono le occasioni in cui la società appare sempre piena di un infrenabile altruismo. La cosa spiacque al cognato del filosofo, un sacerdote, che, bruscamente, all’ennesimo offerentesi per ricercare detti scritti postumi per darli alla luce, rispose: ‹‹Intanto, perché non cominciate a studiare i volumi già stampati? Non sono questi che hanno reso celebre mio cognato?››. Quella risposta allontanò l’ammiratore dalle dottrine del grande maestro.
Eccolo li, sul letto di morte, pieno di fiori.
‹‹ Come riposa sereno! Pare che dorma!›› dicono tutti i visitatori. E sono tanti . . . Filosofi, studenti, sacerdoti, professori di università e di scuole minori, uomini politici: la maggior parte porta gli occhiali o le lenti, e non è vero che egli sia sereno come se dormisse. Se essi lo hanno compreso come lo vedono!. . .
La tua faccia è rimasta contratta, per quanto impercettibilmente, dagli ultimi spasimi: non è più bella faccia né lieta né triste come quella dei tuoi fratelli, quali Dante li rivide. Supino come tu giaci, la tua fronte, quella fronte divina che conteneva tutti gli splendori e tutte le trasparenze, guarda il cielo della stanza. Gli occhi, quegli occhi, occhi febbrili, che si illuminavano di un sorriso unico al mondo quando, di tanto in tanto, rivedevi il tuo devoto Fedone, sono chiusi. Le tue manine venerande sono strette dalla corona del Rosario. Una mano femminile ti accarezza lenta
-è, forse, l’usata, intima carezza – le folte e robuste sopraciglia, la barba bianca, la fronte. Essa percorre lievemente le tue sembianze e fa rievocare, cosi, pel tatto leggiero, aglio occhi che non si vedono dell’inginocchiata, la vita della tua faccia, che era tutta quanta la tua vita esteriore. “Qua sporgevano quelle labbra che baciai tante volte . . .”
Il corteo muove, al suono di una marcia funebre. La salma fragile e leggiera viene trasportata al cimitero da otto cavalli neri, condotti per mano da piccoli fantini, che guidano il carro monumentale, sopraccarico di corone. Illustri personaggi reggono i cordoni del gran carro, sul quale la bara sembra leggiera come un sughero. Dietro, seguono numerose rappresentanze di scuole, di sodalizi, di comuni, di amministrazioni, ciascuna col proprio làbaro: una selva variopinta. Chiude il corteo, dietro la folla, una fila di vetture coperte di corone di fiori. Il corteo fa un grande giro della città per poter passare dinanzi l’Università, dove il maestro insegnava. Qui, sotto il grande balcone, dal quale pende la bandiera abbrunata, il carro sosta per qualche minuto. È un muto saluto che si vuol far rendere dall’istituto allo scomparso. Quindi il corteo riprende l’itinerario. Giunto fuori porta sosta nuovamente e vengono pronunciati commoventi discorsi di occasione. Poi la folla si sparpaglia e soltanto gli intimi proseguono fino al cimitero.
Nella casa deserta, intanto, un individuo rimasto inosservato scivola silenzioso nello studio deserto del defunto. Con mano febrile egli fruga i cassetti e, alla luce incerta del crepuscolo, ne esamina ansiosamente il contenuto. Egli getta uno sguardo su ogni foglio, poi, rabbiosamente, lo scaglia nel cestino. Mormora parole inintelligibili, forse bestemmie. Dopo avere esplorato tutti cassetti, lo sconosciuto si toglie le scarpe, monta sul tavolino, e spia attentamente la parte superiore degli scaffali: non vi è altro che uno spesso strato di polvere. Egli ridiscende, si rimette le scarpe, si getta a terra e cerca sotto la libreria: nulla. Si rialza e guarda la parte inferiore del tavolino: è vuota. Picchia allora contro le mura: non ci sono nascondigli. La faccia dello sconosciuto comincia ad esprimere, con l’ansietà, il dispetto. Egli si stropiccia nervosamente le dita impolverate sui calzoni neri e gira intorno lo sguardo. Pensa di sollevare il tappeto che ricopre il tavolino da lavoro: sempre nulla. Scosta il tavolino: un grosso volume va a terra e si scompagina. Ne cadono una gran quantità di ritagli di carta che si sparpagliano sul pavimento. Lo sconosciuto si precipita su questi, se ne riempie le tasche. Un passo risuona egli si inginocchia subito e nasconde il volto fra le mani in atteggiamento compiuto. Una donna vestita di nero, coi capelli bianchi, un mazzo di fiori tra le mani, è sulla soglia.
‹‹O maestro, illustre maestro!. . . voi pregate per lui! . . .››
‹‹Coraggio,signora. Egli ci guarda dal cielo, egli è nel mistico regno . . .››
‹‹Egli non credeva, ma era grande e buono. . . ››
‹‹Ah! Si . . . forse. . . egli non fece altro che lavorare. . .Vedete? In quella poltrona stava immobile per ore ed ore, immerso nei suoi alti pensieri. . .Era un vostro ammiratore e un vostro amico. . . Al mattino sedeva al tavolino e leggeva. . . Leggeva sempre gli stessi libri. Guardate questo. . .dov’è? Ah! È caduto a terra. . . eccolo; è Leibniz. Quanti anni meditò egli su questo volume?poi prendeva degli straccio lini di carta, che io gli preparavo, e li usava come segnalibri. Questo volume ne era pieno. . . io ne ho tanti, ancora. . . se non vi dispiace, desidero offrirvene alcuni, come un ricordo. . . eccoli. . . prendetene. . . ››
‹‹Grazie, signora. Egli era. . .››
‹‹Prendetene ancora. . . ancora. . . ››
‹‹Quale dolce ricordo. . . ››
La signora è là, con un cestino pieno di ritagli in mano. Un raggio di luna invade la sacra stanzetta e mette in rilievo ogni cosa. . . tutto il dolce passato balena in quel raggio candido alla povera donna, che, ad un tratto, dà in un grido straziante:
‹‹Ah! Dio. . . è finita. . . Prenditeli tutti, illustre maestro, ch’io non veda, ch’io non pensi, ch’io non ricordi più. . . Tutti, anche il cestino››.
Il maestro prende anche il cestino, guadagna la porta d’ingresso del modesto appartamentino e scende, al buio, le scale che tanto faticosamente, di ritorno dall’università, saliva il grande filosofo, con la schiena sempre più curva, il passo sempre più malfermo, il cuore sempre più affaticato dalla sete inestinguibile;: la sete che logorava il vecchietto dalla barba bianca. . .
XX Devota , da Sinfonia , Lerici editori, Milano , 1966
Un’arancia a desco dell’albero educanda per inviolabile, avvinta nelle sue tuniche, difensiva il precetto entro viscerali tenebre, e paziente di chirurgia cedendovi ritrosa abbagliarne luce zelate carni fra gli ultimi legami offerte oramai altrui con opposta sorte, le gustassero, darsi. In giro tinnivano del pascolo le stoviglie sui nudi marmi contigui, vi erano a divozione tese esili scanalanti nuche su giù spalleggiando vigili istitutrici. La somma dei cicalecci tra prossimi e gli opposti forniva un omogeneo frastuono riverberato dall’altissima volta, subito apparso sulla soglia massiccio lo spaurevole direttore ecco propagarsi il silenzio, volgere a palio in lui tutti i visi, colava effusa effusa instabile bicchieretto. Voce e prestanza sviavano in contemplazione l’ascolto, sicuramente sgridi (che non sarebbe venuto per un da meno), effetti di invalutabili principi, come tesi occulte improntano alla lontana giudizi che non ricondottivi sembrino altrimenti arbitrio e sole ne giustificano troppo aspre condanne o panegirici eccessi. Ripartitosene, rimbaldanzivano. Minuscoli sudditi, lentissima una cresciuta da viverla quasi fosse immobile, qual lancetta di ore, con vario metro che poi, sol a distanza immane il sovrano, pur incompetenti anzi fuorché in subirlo. Appresso, l’accettazione: amussis buris biduemenoquattraccí, su su dove calcolo trasfigurando si ingegna per comperare, aocchia parentele. In cima, eleggere; il suo vecchio maestro, aula semivuota, incompreso, evitato, bianca la barba, nero abito, tal dimessa schiena, stanchi passi, ben strano poi nella folla ignara devoto ricondurglisi accanto, avido le orecchie, verso casa: cercare è esigere altro, per già manchevole meta, infinito che sia, sol domanderebbe viandante dove sono i cavalli, ultimo perpetuo confondersi ogni partenza con arrivo, insignificanti bolle reputanti dilemmi, perse entro un ordine scaturito alternande incontrovertibili, questo instaurare consimili. Il balconcino lassù, dalle screpolate persiane, lo studio carico di scritti righe arcute sottili senza pentimenti, logori tomi, innumeri pipe fittili, lor cannucce a cataste, penne scolaresche, umile calamaio, tutto serviva una consapevolezza profonda lucida categorica mai indulgente, o ingannabile non transmutando intrinseca astuta insidia. Da piè scala il discepolo ne accompagnava l’ascesa sosteggiata e arrancante, solito di frequentare poi un’oscura tipografia dove ultima grande opera, spese al venerando autore, era sotto stampa. Prudente accaparrarsene copia, non andassero via a ruba, per denaro contato accolto dal padrone se incredulo pur con pertinenza, comprensivi i successi volumi. Erta una ragazza sbucava recando fogli a bracciata, appunto di quelli, celere lui mentre disattenti cogliervi il primo, ripiegarlo distratto e andarsene, strada strada estatico esploratore, l’allarme, sopravvivere razionale corriere, rendergli maltolto stupide scuse. E infine era suo il libro, a fenderne adagio adagio le carte leggendo, libandovi, conosciamo solo i nostri giudizi: essere, nulla, realtà, virgole, altro non sono che loro determinazioni, limite l’impensabile, onde trascenderlo è credere. Tutto acceso correva a chiedergli se in pagina di guardia apporrebbe promessa dedicatoria. Fra le tante pubblicazioni in mostra dal libraio nessun esemplare, pochi gli invitandi a simile dettato, accolto nell’aula stessa più con benignità che cervello, placide facce verso aspetto contratto urgente dimentico di sé. Per tal cruna oh quale dovizia, salva ormai: scrigno il capolavoro, che egli difendeva da strisci o pioggia, negli offerti ripari quando violenta, ben discosto viadentro col sopraggiungervi scrolla tori. Cessata appena, rimastine sol tremuli rigagnoletti, dopo esempio già riprendevano ciascheduno cammino, ecco la traversa tranquilla, fabbriche vecchie, imposte e portone ciechi, i pianerottoli bui, ostetrica, geometra, sarto, consulente daziario, estremo uscio aperto, ombre, andirivieni, lui supino fra quattro ceri, conserte le sue piccole mani, scarpe nuove, ben rivestito, disgombra la cameretta, ancora gli pensava quel viso. Or inarrestabile apparecchio, segreta mente, era mosso fra l’avvicendarsi di dotti, manifeste comparse, ignari a un’occhiata giunti dal villaggio per la fazione. Venivano telegrammi, tradotti alta voce, Harvard mittente, Upsala, Altri ha fama in patria, taluni fuori, neutro per molti, e che vale poi? No? Si stava nella contigua saletta, fra l’ingresso schiuso e il serrato scrittoio, vari agli oscillanti riverberi di laddentro, accogliendo visitatori cordoglio, ognuno col proprio compito. Giro giro contro le parte ghirlande, fiera ecatombe di fiori; poi sibilare fiamma, uno scalpaccio, l’ exit, in gramaglie i grandi morelli, via, appresso banda, gonfaloni: a rilento, la soffermata innanzi lo studio; e alto sventolava addio vivido drappo. Non già nelle ben fornite vetrine il nuovo trattato, ma copioso e intonso era sui muriccioli bibliaci di San Giuseppe, negletto, soltanto pergamena zigrino grana attirando esperti: che se alcuno sagace lo trascorresse, un bel nulla salvo formidabili note vi rinveniva, né lepide, né scollacciate. Uniforme schiera, da panico borsale, addossata gialle coperte alla chiesa ove, bronzi in ceppi, occultante immagini simulacri il violetto, nudi gli altari, ciborio orbo, nere le pianete e ogni stola, sul camice diagonalmente trasversa, ora di tenebre, muto l’organo, sorda la raganella, era supplice commemorando parasceve. Ritti leggevano alato per antifone a tribunale il passio, una voce – or Pilato, quando popolaccio – intonando Tu es rex Judaeorum? , pronto cronista subentrante Respondit Jesus, e immediato, l’interprete, Regnum meum non est de hoc mundo. Tornava quella, Tolle, tolle, crucifige eum, il secondo, Dicit eis Pilatus, questi Regem vestrum crucifigam? E andatisene i tre era adorata la croce, il momento poi degli improperi, Popule meus, quid feci tibi? Aut in quo contristavi te? Responde mihi. Rispondeva il coro Popule meus. Io ti ho aperto le acque, tu a me con la lancia il fianco. Dal coro, Popule meus. Io ti ho dissetato con salutare sorgente, tu a me fiele e aceto. Pupele meus. Io ti ho dato scettro regale, al capo tu una corona di spine. Popule meus. E il rifugiarsi in salmi inni, cui alterni Crux fidelis, Dulce lignum, Crux fidelis, Dulce lignum, Crux fidelis, Dulce lignum, crux, se, più che legge, governo, tragici ponendosi questi estremi: di verità diverse non interferenti. In quel mentre al fonte battesimale, giungendovi confusa la liturgia, era addotta furtivi per insolenti aditi una neonata. Le facevano siepe nella penombra, quasi scudo l’imposta mano, coperti con maggior toni i vagiti, che pur volesse rispondere da sé. Monda la riconducevano atta a partire in salvezza, non per quaggiù, nuovamente lungo deserti passaggi, taciturna, facile, attesa dalla madre, gran corredino, reliquie di festicciola dismessa, bigliettini aurei differti, campanello impannato, atroce vegliare. Ma durava, si, con fermezza povera creaturina aiutandosi aiutata. Inconsapevoli repentini fugaci i primi sorrisi cui riflesso angoscia sullo specchio materno, giù braccia e mani incalzavano alla prossima meta un galoppo, l’immisericorde indentare, di nottetempo nel sonno era belata mamma. Ecco un impartecipevole moto a lei attorno concentrica, gambe flessuose affermanti passi negatele, automobili, ormai accortasene mostrava reverenza. Per bua più piccino sul diterello, subito con sgomento aspetto a consulto arrivandole era consolato; rombavano dal terrazzo pattini, giù in vista fra le aiuole partite di girotondo, nel campo sferomachie, bionda mosca sopra il rutilante bracciolo che gran forbirsi aracnidi zampe. L’ora giunta i dolci romanzi, che finissero bene, amen, ottenutolo ritornare indietro, sul pericolo vinto, calma, saputa, come accorto riscontro che si dimentichi nulla, pur sgranocchiando stavolta pane cioccolato; ma troppo scarsa invero, dopo si abbondante indugio nel male, qual pittura epifrastica della felicità, due tre righe in più, a porgerne una certezza notarile: il non morde, se non se manca, o piccola, piccola sirena.
VIII. Pupille da: Ultime e Penultime, Cronopio, Napoli, 2001 ( prima edizione……
Da uniche, progredenti fino a trentine di parti, in mille miriadi, or fessure pettegole, quando riprensive, sacerdotali, pagane, ove Platone, che Søren, Misilmeri o Tagaste, pur altrettante galassie quasar e novae. Se, essere, mero calco, anche le voci in tal minimo impresse, delle vibrazioni infinite: a studio, siccome dal notaro o altronde rime priori, qui con Fenaroli e suoi numeri per cogliere quelle d’estro e fermarle, nobilitarle, infusovi stile, il gusto al rallentamento appreso da attive alcove galileie. Non da noi noverabili ogni favilla, dissolventisi di volta in volta: appena pena le sparse impigliate nel pentagramma.
Gianfranco Contini , Antonio Pizzuto, Coup de foudre, Lettere (1963.1976) a cura di Guaberto Alvino, Polistampa, Firenze, 2000
26
Roma, 5.7.64. h. 12.25
Mio carissimo carissimo mio,
[…] Non sarò certo il primo od il solo vecchio fra i tuoi ammiratori che frequenti le tue lezioni. Io ne ricordo uno ultrasessantenne assiduissimo a quelle de mio grande maestro di filosofia teoretica, Cosmo Guastella, dimenticato – provvisoriamente - da tutti: neppure il nome, pensa, nelle grandi storie della filosofia (eccezione: il Windelband) nostrane e straniere! Una mente simile, astrazion fatta dai labili contenuti, caduchi in tutti indistintamente i pensatori. Si chiamava Cav. Rivarola, occhiali d’oro, barbuto, la pancetta alla Gentile: che ci capisse molto non so, un pensiero quello cosi sottile – e mai nel troppo – e profondo e di una energia incommensurabile. Un giorno te ne leggerò qualche nota: bastano esse a riconoscere il gigante! Naturalmente soffocato in vasta congiura in silenzio dalle cricchie imperanti allora: la crociana filosofia delle quattro parole e il burbanzoso attualismo. Eravamo guardati con gran sussiego noi misera minoranza ignorante e plebea. Ti ho detto già della mia singolarissima apostasia appena lui morto, voglio dire della dottrina specifica (opere grosse quanto dizionari, da me amorosissimamente provvedute di scolii, le ritroverai alla Nazionale di Firenze, io ne amo dippiù la, Saggio sui limiti e l’oggetto della conoscenza apriori, perfetta l’ultima in 3 voll. Le ragioni del fenomenismo, ma le leggo e medito e studio ancora oggi, sono la mia delizia; e sono certissimo che se potessi esporgli quelle che hai dette le Tavole della Legge le accetterebbe cosi come sono, o le svilupperebbe da par suo). […]
39
Roma, 24.XII.64, h. 16,30
Mio carissimo carissimo mio
[…] Quando ripenso che a Cosmo Guastella, per i fratellini politiconi e politicanti, toccarono vessilli e banda musicale e discorsi di incompetenti, assolutamente ignari di ciò e chi celebravano! Ed io pensavo se li sentisse! Quanto mi piacerebbe che tu leggessi almeno il suo primo Saggio (Sui limiti e l’oggetto della conoscenza a priori, Sandron, Palermo: lo troveresti alla Nazionale in Firenze)! Ti abbraccio.
84
Roma, 24.4.68, h. 21.40
Mio carissimo carissimo mio,
[…] Negli intervalli e riposi durante la stesura di XVII –Scorta, ritorno avidamente a questa tua Cheope, e poiché, per una sicura II edizione, eventuali proposte di lettori solicited, io mi permetto pregarti che in essa trovi, con Gentile e Croce, una sede il massimo – quanto ignorato- nostro filosofo dello stesso periodo, und zwar Cosmo Guastella! Potrei facilissimamente fornirti quanti luoghi tu voglia dalle sue opere monumentali, specie dall’ultima, le duemila pagine – tutte carne di porco – de Le regioni del fenomenismo: nulla da sbadigliare, nulla da Graecum est, non legitur: un pensiero di una profondità, lucidezza, attrattiva senza pari, splendidior vitro, da impallidirne quei due, e con loro ogni altri, contemporaneo, moderno o antico che sia. […]
108
Roma, 27.XII.70, h. 17.00
Mio carissimo,
Poi che ti so in riposo, a ritemprarti in dolce riposo, è il momento per una lettura che ti sarà il migliore alimento, una delle massime privilegiabili letture: Le ragioni del fenomenismo, l’ultima opera di Cosmo Guastella, uscita postuma, mesi dopo la sua morte, tre volumi, duemila pagine tutte carne di porco (nel III c’è il ritratto di lui), bozze in parte corrette da me, pubblicata a spese dell’autore, l’intera edizione finita sui muriccioli di San Giuseppe a Palermo, ivi Priulla editore, poi mandata a Harvand, al Mawr College, a Uppsala etc. secondo lista compilata da Lui. Nessuno quasi ha finora letto questo immortale capolavoro. Le storie grandi e piccole della filosofia, nostrane e straniere, a eccezione del Windelband che se la cava con una noticina, neanche registrano il nostro massimo pensatore( dello Ueberweg mi manca l’ultimo volume, e può darsi che negli straricchi cataloghi bibliografici cui, in ultima analisi, si riduce quest’opera cosi povera di pensiero, vi sia un titolo o due nelle sue esposizioni alla Rascel). Toccherà a Guastella la sorte di Spinoza. Intanto le carte non si contano dedicate alle frescacce di Castelvetrano e Pascasseroli, causa mali tanti. Io posso vantare due maestri: te e Guastella. È bene che vi ponga in diretto contatto. Ti innamorerai di lui, ti accompagnerà nell’impervio e nel profondo con lucidità e finezza di pensiero, e coerenza e acume e vigore quali solo in Hegel, in san Tomaso e Kant si possono ritrovare, e con sviluppi che dànno le vertigini: il II volume, di oltre 650 pp., ha per un unico oggetto le antinomie, delle quali Konigsberg si sbrigò alla svelta, come ben sai. Quanto poi Guastella possa e sappia allettare una mente come la tua, vedrai subito! Anche se letteralmente ti darà poca gioia, non lascerai più quel testo ischirogeno. Lascio a te, quando muoio, il suo ‹‹Saggio sui limiti e l’oggetto della conoscenza a priori ››(ed. Sandron, introvabile) tutto analiticamente postillato da me, purtroppo a matita! È fra i miei libri più vicini, con te, Dante, Petrarca, Shakespeare e qualche altro.
113
Roma, 4.2.71, h.11.10
Carissimo
[…]Ho scritto a Giovanna per il Guastella. Sarà felice, se lo trova, di offrirtelo in memoria di me, ma conto che tu lo leggerai e te ne innamorerai, anche se, dal punto di vista dello scrivere, ti sarà una brutta copia del Vico, che anche a scrivere, come si dice, ci sapeva fare. Voglio sperare che le ricerche di Giovanna siano fruttuose. Mio genero ha una piccola, ma bene scelta, biblioteca (fra l’altro la Collana Ricciardi, quasi per intero), ma è probabile che il Guastella se lo sia preso Mino filosofo. Grazie! Grazie! Abbracci.
LXXIX
[Firenze] Pian de’ Giullari, 1 aprile 1971
Carissimo,
[…] Più voluminoso e oneroso dei tuoi invii, il triplo Cosmo. Per ora ho potuto solo annusarlo, percependo l’aroma début-de-siècle di altri testi, didatticamente acribi e (con anabolica piacevolezza) nutritivi, della mia iniziazione filosofica. Mi pare, come del resto accade a Bergson, che il Guastella soffra un poco d’una rappresentazione antiquata del mondo esterno (quantunque per latro rispetto sia una fisica rassicurante). Senza la tua prepotenza postale non avrei avuto l’animo di affrontare il confronto (in senso giudiziario). Tuttavia la spedizione contravviene ai nostri patti. Accetto con riconoscenza il (lungo) prestito, non il trasferimento definitivo, che deruberebbe non so se più te o Mino filosofo. Perciò tra qualche mese renderò i volumi o a te o alla signora Giovanna, secondo i vostri ordini; mancando quali, li spedirò non in via dei Normanni, ma in via Fregene.[…]
116
Roma, 2.4.71, h. 14.40
Mio carissimo,
La tua di ieri si è incrociata evidentemente con la mia della stessa data. Rispondo che il triplo Cosmo è tuo, non mi rifiuterai la gioia di donartelo, né è un’opera da leggersi e restituire. Che quella di lui sia una rappresentazione del mondo esterno, tu non tarderai a ricredertene. Quel suo mondo non è mai un presupposto o un’ipotesi, ma costantemente e infallibilmente una mera algebra elegantissima, cui giammai soggiace alcunché di esistenziale. In questo anzi Guastella è maestro incontestabile di coerenza perfino ai logici matematici del nostro tempo, polacchi, tedeschi, inglesi o americani che siano. Il realismo degli esistenzialisti, dell’intuizionismo, dello stesso Einstein, etc., è assolutamente non solo evitato, ma annientato da lui. Delle mie scarse letture non conosco nessuna più radicale di questa. Forse gli è mancata soltanto l’equazione di essere con vivere, tralasciata da lui per implicita superfluità, se unica e sola categoria ammessa è quella di somiglianza, che nulla presuppone di esistenziale, ed è la Grundlage delle nostre induzioni, alle quali fa arrivo e l’idealismo e il concetto: quest’ultimo retrocesso a mera classificazione.
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Roma, 2.5.71, h. 19.00
Carissimo
[…] Giovanna mi ha scritto che Mino possiede altra copia de Le regioni del fenomenismo, ragione in più perché tu voglia accettare la tua senz’altro. Per me, il capolavoro è il II volume, dedicato alle Antinomie, e a rileggervi, ad aperta di libro, come nella Bibbia o Kempis, imparo sempre qualcosa di nuovo. Poi nel II rimiro il ritratto di lui, con una grinta d’occasione che egli, personificata dolcezza, non aveva; che anzi, pur raro, gli era proprio un χείλεσί Υελάν alla Monna Lisa proprio delizioso. Professore, gli chiesi io mentre lo accompagnavo, crede Lei in Dio? E quanto, quanto tempo si prese prima di un no. Altrettanto che san Tomaso riguardo alla coesistenza possibile tra Dio e mondo. […]
Antonio Pizzuto, Telstar: Lettere a Margaret Contini (1964-1976), a cura di Gualberto Alvino, Polistampa, Firenze, 2000
Roma, 22.III.66, h. 18.50
Carissima Bisna cara,
[…]. Sono lieto che Devota Le sia piaciuta, e pure a Lui! Gradirò che la leggano anche i Nencioni, con la viva speranza che egli si sia rimesso dopo tanta sofferenza! Ho attribuito a quel Maestro (che veramente ebbi e fu grandissimo, nonché dimenticato: soltanto nel Windelband qualche riga) idee che sono le mie, a Lei ormai note. Ho fatto male? Una mancanza di riguardo? Che ne pensa Lei? Comunque, egli non è grande per le idee come contenuto, ma per la profondità, lucidezza della mente e degli studi, le idee passano, ciò che rimane è lo spirito. Purtroppo non ha avuto buoni discepoli, poiché i più si sono schierati altrui vessilli, più remunerativi anche se l’alfiere era une bonne tete pour un chapeau, or something. Si Chiamava Cosmo Guastella, come dire Carneade.Uno sei suoi fratelli – tutti presi dalla politica comunale – ha tradotto in dialetto siciliano la Divina Commedia, non so se lui lo sappia. Era medico. L’altro, farmacista (Vincenzo) e sindaco di Misilmeri (comune della provincia di Palermo). In gran parte, almeno in Sicilia, gli uomini politici sono medici (non con 6 palle: molte molte di meno). Ce n’era un altro, col cameriere che domandava: Lei viene per visita, o per il partito? E secondo il caso uno veniva avviato in questa o quell’altra anticamera, qui ordini del giorno e pastelle, là congiuntiviti e quant’altro! Credo che anche oggi le cose procedano così. Salute! Buona salute!
Roma , 20.4.66, h.18.40
Carissima Bisna supercarissima,
[…] Gli ho scritto in diagonale, per la 2° volta, spero nella sua indulgenza, che colpa ha il mancino? E il daltonico? Sono nato così. Il mio maestro I (Guastella, il II è Lui) scriveva invece per archi, così: ........ E come Lui, non usava occhiali, pur essendo settantenne quando ebbi la fortuna di esserne discepolo. Era grandissimo, il solo, oltre che con Lui, a infondermi il complesso del moscerino, ché tale io mi sento sempre più al cospetto di Lui, e nel leggerlo. Penso sempre ai milioni di difetti ed imperfezioni che non può non trovare nei miei lavori, e più ne tace, più li intuisco numerosi e invincibili.[…]
Roma, 28.3.67, h.18.15
Carissima Bisna così cara,
[…] Ho con me l’ultima opera di Cosmo Guastella, donatami dalla signora Lo Cascio, milleseicento pagine che rivivono dalla memoria a una a una, e come vorrei che Lui ne leggesse una, ad apertura del libro, o alcuna nota, basterebbero per intuire il gigante ignorato, non saprò mai ancora per quanto tempo, per Spinoza fu un secolo intero, ma verrà la sua ora! Come vorrei io stesso destare le torpide menti di oggi, paghe di giocherelli verbali e di incredibili assurdità! Ma non sono che un piccolo dilettante, nessuno mi piglierebbe sul serio e soprattutto costa troppa fatica addentrarsi in tali letture. Mi ci volevano tre quattro anni per ogni volume. I filosofi contemporanei lo desidererebbero per supposte (Iam satis, mi ha scritto Lui), fanno ben più presto con la roba viennese e degli altri siti. Pensi che in nessuna delle storie della filosofia nostrane se ne trova il semplice nome! E delle straniere (mi manca l’ultimo volume dell’Ueberweg, che presumo farà eccezione) soltanto il Windelband gli ha dedicato pochissime righe. Vuol fare Lei stessa una prova? Ne domandi al primo filosofo in cui si imbatterà, e sono pronto a scommettere. Per buona sorte Egli non trascurò di inviarne esemplari, con tremende spese postali, a Harvard, al Mawr College, etc. Ma un jour viendra. Orbene, sono persuaso che Lei stessa non ne abbandonerebbe più la lettura, che è limpidissima, come in Kant o in Aristotele e qualche altro. Ed io vi sono tornato con la stessa vertigine, lo stesso infinito stupore che mi suscitava da giovane. Quanto mi accora che nulla, assolutamente nulla, io possa fare per Lui! E lo rivedo, ne odo la voce, roca, mi riappare vestito di nero sempre, la barba bianca, le piccole mani intente a grattarsi perpetuamente la testa, la grafia a dorso di d’asino, le infinite pipe di coccio, l’odor di gatti in tutta la casa, l’umile calamaio da un soldo, cui attingendo la penna mandava un toc d’urto nel fondo; e mi scriveva: non merito né i Suoi elogi né i suoi biasimi, e d’improvviso nella Sua effigie austera appariva un sorriso supremo, luminoso e fanciullo. Indulgenti gli allievi lo guardavano con benevola considerazione, e mi chiamava sa come? Non Pizzuto, né Antonio. Mi chiamava, indovini un po’! Avvocato. E veniva a trovarmi a volte in ufficio. Vengo, mi diceva, a chiederle un consiglio. E restavo senza parola. Com’era grande! Quanto è grande! Dovevo passare un’intera vita per ritrovare in Lui – il Lui nostro – il mio secondo Maestro!
Roma, 4.4.67, h. 17.30.
Carissima Bisna carissimissima,
ricevo in questo momento la Sua di ieri. Grazie! Ho calcolato male il numero delle pagine fra i 3 voll. dell’ ultima opera di Guastella: sono duemila, senza una sola parola superflua. Come vorrei che Lei ne leggesse una sola! E, qualunque basterebbe.[…]
Roma 10.III.76, h. 17.30
Carissima Bisna,
[…] Per indorare la pillola, ti prego dirGli che io, a conti fatti, le persone più pelose conosciute sono: Lui, e Guastella. Né mi è possibile dirti a chi la palma: ma se ciò può aiutare il tenèrrimo, diGli pure Lui, e forse non mi sbaglio. Nel III vol. de “Le ragioni del fenomenismo” c’è un suo rutratto, molto somigliante, ma si tratta de Le ragioni del fenomenismo, non delle ragioni della pubecenza. Certo, accarezzare uno dei due deve dare il frissone del cashmere(o come si scrive), Mille abbracci sempre e fervidissimi auguri.
Antonio Pizzuto di Ruggero Jacobbi
Il Castoro, n. 58 ottobre 1971, pag.1
Che pensi dei risultati a cui finora è pervenuta la critica (per certi riguardi attentissima) nei confronti della tua opera?
Mi sarebbe ammaestramento prezioso un’esegesi dell’aspetto filosofico, essenziale dovunque nei miei lavori, che finora, che io sappia, non esplorato.
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