martedì 5 aprile 2011

L'Arte difficile di Antonio Pizzuto, RAI regionale del Lazio, Videoteca Centrale Roma n. 1968 del 11-12-1986

RAI
Sede Regionale del Lazio


Videoteca Centrale Roma
n. 1968 del’11-12-1986

Operatore: Costantini
Fotografia: Amedeo Fortunati, Fabrizio Gentile
Montaggio RVM: Mauro Sinibaldi
Durata: 28’





L’arte difficile di Antonio Pizzuto

Di Gabriella Leto, Claudio Sestieri e Francesca Pirani
Con la collaborazione di Gualberto Alvino




















Trascrizione: Franco Ciminato

            Mixer. Il lettore che entrando in una qualsiasi libreria volesse acquistare un romanzo di Antonio Pizzuto, difficilmente lo troverebbe: l’opera dello scrittore italiano più sperimentale e forse più singolare del nostro secolo è ormai quasi completamente fuori dai cataloghi, distrutta o svenduta. Eppure, il giorno successivo alla sua morte un critico illustre, Gianfranco Contini, preannunciava a Pizzuto una fama sicura e forse la gloria.
     A 10 anni dalla sua scomparsa, dopo la pubblicazione dalla Mondadori di un romanzo giovanile pressoché sconosciuto e di testi inediti su varie riviste letterarie, per la prima volta si tiene a Roma un incontro di studio a lui dedicato: si rinnova, quindi, l’interesse sul suo nome e si ripropone al pubblico che non la conosce un’opera per la cui comprensione e collocazione l’autore aveva previsto 25 anni.
     Qual è dunque l’importanza di Pizzuto? Lo abbiamo chiesto ad alcuni critici.


Walter Pedullà. Direi che conviene la risposta più scontata, prima di tutto perché è uno dei maggiori scrittori del secolo e pochi lo sanno; è uno scrittore ingiustamente poco letto, e il primo consiglio che si può dare alla gente è di andare a leggere i libri di Pizzuto. Perché è uno scrittore importante? Intanto per la sua formula, la sua idea di letteratura: aggiungere vita alla vita; pochi scrittori italiani sono riusciti ad aggiungere tanta nuova vita quanto è riuscito a fare Pizzuto, organizzando in modo diverso, inedito, inaudito le parole della nostra lingua. È uno di quegli scrittori che hanno lavorato al confine, nel senso che ha lavorato in un punto ai margini tra quello che era possibile dire coi vecchi linguaggi e quello che era necessario dire coi nuovi linguaggi, e lui ha saputo inventarli. Quello che ha inventato Pizzuto è qualcosa che la nostra letteratura non aveva.


Franco Cordelli. Non sono uno storico, quindi mi viene difficile formulare un giudizio così complesso. Posso dire che nella letteratura del dopoguerra o degli anni ’60 e ’70, l’attività di  Pizzuto è certamente un punto di riferimento fondamentale, perché porta agli estremi limiti, diciamo, tutta una serie di tentativi di critica del romanzo e di destrutturazione del racconto ottocentesco o anche protonovecentesco. Pizzuto, arrivato tardi alla letteratura, diventa paradossalmente il padre di tutto un movimento letterario: la neoavanguardia; o uno dei padri, o uno degli zii, non so, insomma un fratello, un parente, diciamo, più anziano, che però è anche capoguida.


Angelo Guglielmi. Come si sa, la letteratura contemporanea privilegia gli aspetti formali agli aspetti di contenuto. L’importanza o la grandezza di Pizzuto sta nell’avere avvertito l’importanza del problema strutturale e linguistico nell’ambito dell’espressione letteraria contemporanea. Pizzuto è un grande inventore di linguaggi, invenzione che realizza attraverso una ricerca che coinvolge elementi dialettali con elementi in lingua e con elementi appartenenti anche a lingue arcaiche o comunque molto lontane. Alle combinazioni verbali di Pizzuto fa da collante un senso di humor, una sottile e divertita ironia che rivela in lui la presenza di un grande piacere nello scrivere.


Mixer. Pizzuto aveva già 66 anni quando, nel 1959, l’editore Lerici diede alle stampe Signorina Rosina. L’autore di questo romanzo, che si impose con vivace risonanza a una critica ammirata, talvolta irritata, è dunque un questore già anziano da nove anni in pensione. Colpiva, in questo libro incantevole e sconcertante di perentorio avanguardismo, non solo la singolarità dei modi del racconto, della lingua e dello stile, ma anche il debito inusitato e grandissimo verso una tradizione filosofica e letteraria antica, non databile, di influssi e rispondenze infinite, il carattere astorico della narrazione, il senso non più che relativo del tempo, l’audacia inventiva di un personaggio: Rosina, che è solo un emblema nominale e infine la percezione di come quella che chiamiamo realtà non sia se non un disegno incomprensibile cui tributare stupore.
     Su questo romanzo ascoltiamo ancora Walter Pedullà e l’editore Roberto Lerici.


Walter Pedullà. Per molto tempo avevamo creduto che fosse il primo libro di Pizzuto e quindi facevamo la storia di Pizzuto in modo diverso; poi, avendo letto Sul ponte di Avignone, in un certo senso Signorina Rosina conclude una fase di Pizzuto, quella cosiddetta figurativa; dopo comincia quella informale, in un certo senso più innovativa e può darsi anche più interessante, che ha dato dei libri singolari come: Si riparano bambole, Ravenna o Paginette. Comunque si tratta del libro che i lettori farebbero bene a leggere per prima, proprio perché ha quel tanto di romanzesco, di curva narrativa e di descrizione e costruzione dei personaggi, per cui, diciamo, diventa più accessibile, finisce con l’essere lo scrittore di sempre. Pizzuto tenta un dialogo con il lettore, diciamo, tradizionale, ma già si capisce che si prepara a cambiare di versante.


Roberto Lerici. Avevo avuto notizie di un suo libro, un libro pubblicato clandestinamente, praticamente da lui. Era stato letto da diversi scrittori. Mi era stato segnalato. Io l’ho letto in una notte. C’era un famoso capitolo, in Signorina Rosina, della morte di una gatta, e tutto il libro era talmente eccezionale, talmente diverso, che ho preso l’aereo la mattina dopo, sono arrivato e Roma, l’ho convocato, ci siamo visti subito. Lui era una persona anziana, molto ben tenuta, forte, con una sua autorità: in effetti è stato un ex questore, ma in realtà non aveva mai fatto il vero questore, ma era un grande esperto di uomini e cose, almeno come diceva lui.


Mixer. Molti anni oscuri aveva impiegato Pizzuto per raggiungere la sua maturità di scrittore. A Palermo, dove era nato nel 1893, aveva trascorso l’infanzia, segnato da un tenerissimo rapporto con la madre, la poetessa Maria Amico. Poi erano venuti gli anni degli studi al Liceo Vittorio Emanuele, della laurea in Giurisprudenza e di quella in Filosofia sull’opera di Cosmo Guastella. Nel 1938 pubblicò a sue spese Sul ponte di Avignone, un romanzo inquietante di amaro autobiografismo, in cui un critico francese, Denis Ferraris, ha colto il prevalere dell’espressione dei diversi sentimenti d’amore. Queste esperienze culturali, accompagnate da un continuo ascetico lavoro sui classici (Platone, Tucidide, Aristotele, Cesare), avranno come esito esistenziale da un lato l’impiego nella Pubblica Sicurezza con viaggi all’estero e le onorificenze ufficiali, dall’altro il suo sforzo solitario di audacia e impervia sperimentazione.
     Dopo Signorina Rosina i titoli di Pizzuto si susseguiranno: Si riparano bambole nel 1960, Ravenna e Il triciclo nel 1962, Paginette nel 1964, Sinfonia e La biblicletta nel 1966, Vezzolanica e Nuove paginette nel 1967, Testamento nel 1969, Penultime nel 1978.
     Sul significato dell’opera di Pizzuto nella letteratura italiana del Novecento, Arnaldo Colasanti, consulente della casa editrice Antonio Rotundo:


Arnaldo Colasanti. Vorrei rispondere con molto cando… In realtà Pizzuto è uno scrittore che è nell’opera, quindi uno scrittore che riesce a ricreare un mondo, a ricreare un universo in cui l’espressione poetica in qualche modo riesce a essere un’espressione di ritrovamento, di rivelazione. Per esempio a leggere l’ultimo Pizzuto senza fare discorsi molto generali, quella lassa famosa dell’ultimo libro, fra gli ultimi, Ultime e penultime, che è Calco, lui dice:«tutte vie esauste, pergere in infiniti calchi offerentesi ogni e dove». Di primo acchitto io dico questo: che mai una cosa come questa è più vicina proprio a quella costruzione netta, nitida, a quella epigrafe, a quella chiarezza che è della lingua italiana e che è della letteratura italiana; «tutte vie esauste»: si potrebbe pensare ovviamente a Il viaggio finisce qui, al Capitano di Ungaretti, si potrebbe pensare in realtà al viandante, al mito del viandante, e questo pergere, come si diceva, appunto, è un verbo in cui si sente tutto ciò che questa cultura storica, questa cultura profondamente filosofica, di purificazione… questi infiniti calchi di ogni e dove… parola petrarchesca, ma calchi parola tipicamente, appunto, pizzutiana, perché significa ‘imitare’, certo, ma significa poi ‘imbroglione’, imitare nel senso poi di menzognere. Io credo che Pizzuto abbia trovato questa chiarezza di lingua che significa soprattutto una chiarezza della poesia; per esempio significa non fare una poesia che coincida con il linguaggio, cioè una poesia che semplicemente voglia riciclare i linguaggi umani, come se il linguaggio fosse semplicemente uno strumento degli uomini per guardare il mondo. La poesia è in realtà il contrario del linguaggio, è il momento in cui «qualche cosa si abbraccia», per usare lo Jaspers tanto amato da Pizzuto.


Mixer. La rarefazione della scrittura che caratterizza l’ultima fase dell’opera di Pizzuto comincia forse nel ’62 con Ravenna: i periodi si articolano in segmenti sintattici che rispondono piuttosto a un ritmo interno di rimandi musicali che non alla logica narrativa. L’adozione di una sintassi prevalentemente nominale implica il progressivo abbandono dei modi finiti del verbo presente, passato e futuro in favore di infiniti, participi e gerundi.
     L’ironia di Pizzuto infine si fa meno penetrante e dolorosa che non nei libri precedenti.


Franco Cordelli. Ravenna mi pare sia del ’63. Io l’ho comprato quando uscì… È del ’62 anzi, vedo; avevo quindi 19-20 anni. Non posso dire, non so dire se mi sia piaciuto, posso dire che mi ha impressionato in modo, anzi, profondo per tutta la mia attività successiva e per la mia posizione rispetto alla lettura stessa. Cioè credo che imbattersi a vent’anni in un romanzo scritto in questo modo possa essere oltre che scioccante, molto formativo, anche se poi è paradossalmente antiformativo. Cioè, in fondo, Pizzuto lavora contro questo tipo di prosa, lavora contro la significazione, contro l’ordine, i valori costituiti o la storia, quindi contro la formazione, la stessa possibilità di un’educazione sentimentale, e Pizzuto è stato anche uno dei maestri della mia antieducazione sentimentale.


Leonida Repaci (1966, video). Da oggi ad Asti siede una corte di appello letteraria che giudica sui libri rifiutati in prima istanza. Non credo che i giudici avranno alle orecchie quel terribile grido: «Chi giudicherà i Giudici?», però io penso che ci sia una cassazione formata dai lettori i quali giudicherà a loro volta se abbiamo giudicato bene oppure no.


Mixer video. La giuria per alzata di mano ha proclamato vincitore il settantenne Antonio Pizzuto, autore di Paginette. Nonostante l’interesse della critica e i due premi che il Pizzuto ottenne — il premio Asti d’appello nel ’66 da Giovanni Macchia, e da una giuria tutta femminile nel ’67 il premio Ferro di cavallo —, i lettori peraltro appassionati e incuriositi continueranno a essere scarsi. Pizzuto ha sempre venduto poco, anzi pochissime copie dei suoi libri. Egli era convinto che le sue pagine avessero una riposta virtù: quella di sussurrare al lettore «Rileggetemi».


Titolo: Un protagonista dell’avanguardia

Mixer. Vanni Scheiwiller — editore, amico e fornitore delle piccole schede di vario colore su cui Pizzuto amava scrivere — ci racconta un episodio curioso sul successo commerciale di Ravenna. L’intervista è tratta da un documentario trasmesso dalla televisione svizzera:


Vanni Scheiwiller. Quando nel ’62 uscì il romanzo di Antonio Pizzuto Ravenna, edito da Roberto Lerici, in tutta Napoli se ne vendette una sola copia; l’autore, addirittura commosso da questo unico napoletano forse su circa due milioni di abitanti, che aveva osato comprare un suo libro, un suo romanzo, volle in un certo senso sapere chi fosse per risarcirlo, per vedere addirittura di fare qualche cosa in suo favore; e data la sua esperienza di questore, indagò, in un certo senso con molta prudenza, con molto tatto, e venne a sapere che l’unico napoletano lettore di Antonio Pizzuto era non un comune lettore o privato, ma un ente cittadino, addirittura una biblioteca, che aveva preso Ravenna, il titolo Ravenna, semplicemente per una guida del Touring.


Mixer. Ancora dallo stesso documentario, ascoltiamo ora un brano di Testamento letto dallo stesso autore:


Lettura di Pizzuto di Codicillo XX,  da Testamento:

  Alleanza di parentado e amiche famiglie convocata per giro o alle dipartite. In case distanti l’apparecchio metodico progressivo, spesa dal parrucchiere vigilia, erte, immobili, ausonie sotto le torri, leggendo gli Ah Bob Bob: poscia ai presenti, borsette, qualcheduna fungibile, anche sintetiche, fin circolatorie talvolta. Laddove sede eletta assesti speciali, una levata per tempo, andirivieni, succinte scoloriti pepli inconsutili, a maneggiar flabelli, racchettevoli battipanni; o, demagogiche, frigo il capo……..


Mixer. Ma in un processo come questo, di profonda eversione del linguaggio, che cosa resta del linguaggio? È veramente, quello di Pizzuto, come scrisse Cesare Segre «un virtuosismo che ci si stanca di ammirare»?


Angelo Guglielmi. Sì, non credo che si possano chiamare romanzi i libri di Pizzuto, anzi credo che Pizzuto non abbia mai scritto un romanzo, ed è proprio questa la prova della sua modernità; infatti il romanzo è un genere ottocentesco, e scrivere romanzi oggi, tanto più ieri, è attardarsi in forme espressive consumate. Piuttosto Pizzuto è un artigiano della scrittura, rispetto alla quale i materiali anedottici e narrativi, di cui pur si serve, sono come il ferro o il legno per l’artigiano del ferro e del legno. Cioè i materiali narrativi servono a produrre parole e non trame, servono a produrre lingua e non intrecci, intrecci tanto cari ai romanzieri.


Arnaldo Colasanti. Pizzuto, io dico, nonostante la sua grossa polemica con la storiografia, io dico che ha un atteggiamento da storiografo; ma nel senso antico, nel senso greco, come voleva appunto Aristotele per Epidemide. Epidemide: questa grande profezia del passato, cercare nel passato la sacralità della nostra vita. Ma questa è la cultura umanistica. Lo diceva anche Dante nel Convivio: «di tutte le terre, quella che è più prossima all’uomo è dove l’uomo tiene sé medesimo». È dunque la nascita, è l’origine, è questo buio della nascita. Ecco, io credo che appunto Pizzuto faccia come in quella lassa che leggevo prima io, che ponga la letteratura in questa imitazione, dunque in tutta una cultura tradizionale, nonostante che la gente l’abbia voluto fare a novant’anni avanguardista, e molti critici l’abbiano voluto vedere come una persona che gioca con i linguaggi. Giocare con i linguaggi significa fare nichilismo, al massimo significa fare cinismo, appunto come fa Moravia, ma significa soprattutto fare decadenza. Lavorare con la forma, con l’espressione poetica, significa ritrovare le parole del… Machiavelli obiettore, ritrovare Vico, ritrovare Erodoto, ritrovare sostanzialmente la lingua con questa vicinanza e al tempo stesso assenza dell’uomo nei confronti della realtà. Questa è filosofia, dunque qualcosa che arriva come punto di arrivo, diceva appunto Pizzuto, e non come presupposizione, se no basterebbe appunto citare, come accade per tanti altri scrittor, un progetto letterario, un mito da seguire, la realizzazione; ma qui noi ci troviamo nella decadenza, nella decadenza oltrealpina, francese. Pizzuto è uno scrittore italiano, insieme a Landolfi, Gadda, Svevo è quello che lavora appunto su una tradizione italiana.


Mixer. Nella sua casa di Roma, sempre più distante da un pubblico mai raggiunto, «sono stato snobbato da tutti, critici e librai» scriveva dopo l’uscita di Pagelle I, nel ’74. Pizzuto trascorse i suoi ultimi anni in uno stato di debilitazione ogni giorno più grave, ma sempre nel fervore di una ricerca comunque inappagata. L’aiutava Madeleine Santschi, la traduttrice francese dei suoi ultimi libri, che sta pubblicando in questi giorni a Parigi e Losanna un ritratto dello scrittore. Ascoltiamo come è nata la loro collaborazione.


Madeleine Santschi. È nata da un’inchiesta che ho fatto per la «Gazzetta di Losanna» sulla letteratura italiana, attraverso la quale ho intervistato i maggiori scrittori italiani, come Ungaretti, Montale, Calvino, Fortini, insomma così… e anche editori: sono andata a trovare Lerici, fra gli editori, e lì lui mi ha dato i libri di Pizzuto, mi ha dato sei libri, non so, era nel ’66-’67, e mi ha detto: «Tutto quello che è importante oggi nella letteratura italiana è questo; e io, ricordo, sono uscita un po’ meravigliata da questo giudizio, sono andata fuori, mi sono seduta su una panchina in un giardino vicino e ho incominciato a leggere. Lì è incominciata la mia passione: sono stata veramente incantata da questa lettura. Il rapporto era delizioso: debbo dire che Pizzuto è stato con me di una pazienza, di una dolcezza, di una comprensione totale, perché è certo che in un certo modo gli rompevo… i piedi, perché in fondo, con le mie domande, d’altra parte lui capiva la mia passione e in fondo abbiamo ricercato insieme il senso delle parole. Era molto esigente, molto fraterno, direi dolce, ma nello stesso tempo di una densità infracassabile; dunque, non si poteva spaccarlo, era lì. Guardava il mondo, secondo me, con uno sguardo che è quello del quale parlava Borliens, dice: “il genio e nonfants ritrovés à volontà; con uno sguardo non di bambino, non infantile, ma ingenuo; direi che questo sguardo suo, sul mondo suo, è una cosa stupenda, e lì salta fuori lo stupore, tutta l’opera sua — lui mi diceva — viene dallo stupore, lo stupore disciplinato. Dunque, lo sguardo molto ingenuo, fresco, lo stupore disciplinato, la sua maestria delle parole: è per quello che egli è secondo me uno scrittore del residuo, e anche direi — se dovessi andare più in là — che è uno scrittore che si potrebbe leggere su una navicelle spaziale, come di dice, negli spazi, o anche nei rifugi antiatomici, talmente la sua opera risulta come essenziale.


Mixer. L’aiutava anche la figlia Maria. Fu lei a cui il padre dettò il testo di Spegnere le caldaie, pagine torturate ed enigmatiche, ancora in gran parte da decifrare.


Maria Pizzuto. Secondo me quest’opera che io detestavo vivamente, insomma ne ha accelerato la fine, perché a un certo momento mio padre andava talmente in profondità nelle cose, che si deve essere calato nella sensazione e nella consapevolezza della morte, proprio per poterne parlare con cognizione di causa, come ha fatto per tutti i suoi libri, dove nessuna cosa è lì per caso, nessuna cosa è superficiale, ma è tutto approfondito fino all’osso, al minimo, con la parola esatta, non un milligrammo di più né un milligrammo di meno. E poi ancor più stanco, a un certo momento ha deciso che ne aveva detto abbastanza di questo programma e allora mi ha dettato due o tre cartelline, di cui una doveva essere una specie di premessa, e in questa premessa, soprattutto lui dice che della sua opera bisogna tener conto complessivamente, dal prima all’ultimo dei suoi scritti, perché soltanto in questo contesto totale si potrà avere la precisa cognizione di quello che è stato il suo lavoro e la ragion d’essere della sua scrittura; e mi ha dettato Duale, di cui ha consegnato a me queste cartelle, così, faticosamente da me trascritte, detestandole pur amandole, perché erano espressione sempre dello spirito di scrittore di mio padre.


Mixer. In una lettera a un’amica Pizzuto scriveva: «Lei ha mai visto un’agave americana? In Sicilia, a Palermo in specie, sono comunissime. Orbene, alla loro fioritura, temibile, corrisponde la morte della pianta. Lei alza lo sguardo a quel grande grappolo di fiori, alto come una giraffa, e abbassandolo trova già tutto in decomposizione: le splendide foglie azzurre lanceolate, un mucchio contorto e brunastro senza più vita. Esattamente lo stesso è di me e delle mie pagine, ormai». In quella vecchiaia operosa, estraniata, la vecchiaia di Si riparano bambole, la memoria del passato, doveva avere una grande parte. Tornano nel privilegio del ricordo le scogliere della Sicilia, i piccoli riti di una borghesia molto amata e un po’ derisa, gl’interni della casa paterna, l’infanzia irripetibile e lontana.


Lettura dell’ultima pagina di Si riparano bambole:

     «La stanza odorava di fresie, narcisi, reseda ben disposti pei mobilucci, sul tavolinetto al centro, con le prime calendole. Tenera manichea verso i fiorellini recisi, mamma era sollecita a aspergerne le corolle, ravvivare steli, tuffarli meglio nell’acqua. Adempiuto ciò ella scopriva il piano, a leggere di quei tempi dal Faust tanto in voga. Dammi ancor, cantava dolcemente;  la melodia nella sua eleganza francese attirando Pofi lo induceva, in punta di piedi. Dammi ancor. Sotto il tocco dell’anulare spingante, il secondo la dei cantini affondava sordo senza ritorno a galla».



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