martedì 11 agosto 2020

Giacomo Serpotta: Il poeta della felicità di Rita Franco

Giacomo Serpotta, IL POETA DELLA FELICITA'

di Rita Franco, 1933


    Il più vero, il più ricco, il più trionfante poeta della felicità è stato uno scultore e per nostro particolare orgoglio un palermitano: il Serpotta.

   Come il latino Ovidio potè confessare di se stesso che tutto quanto tentasse di scrivere sonava inevitabilmente verso; così bisogna riconoscere che ogni figura che il Serpotta ha foggiato con la sua stecca miracolosa, col suo pollice divino era una nuova personificazione dell'eterno sorriso.

Compone egli la statua della Carità?, quella della Verità, quella della Giustizia? 

      Ecco che sotto le sue dita, nel fuoco trascendente della creazione, quando l'animo dell'artista libero da ogni legame contigente ed esterno si trova in immediato contatto con la materia e la tratta come detta dentro, la Carità, la Verità, La Giustizia rompono la rigida compattezza della loro natura concettuale... fremono a un urgere improvviso di vita, diventano creature... e sorridono.

     E' una luce che le illumina tutte. E se ne cerchi la sorgente, ora in quel gesto, ora in quell'altro, ti accorgi ch'essa nasce di dentro poichè, quelle statue hanno un'anima come persone vive. E quest'anima s'irradia come una forza e ti costringe a scambiare con esse sguardi di festoso amore. Esse, infatti, ridono e chi le guarda non può che imitarle. La Carità ha un riso dolcissimo largo e fervido, come quello di un cuore che si dona. In quelkle sue vesti, che tutte si disciolgono nel gesto dell'offerta, e in quello di protezione con cui la mano si appoggia sul capo di un fanciullo implorante e fin nel nitido volto è tutta una sua letizia consolata e consolante.

    Ma anche laVerità, La Giustizia prendono invano, per pregiudizio di serietà, qualche posa eroica, un fare classico e solenne; non riescono a nasconderci il solare sorriso, la fiduciosa gioia da cui nacquero, l'amore della vita, di tutta la vita che palpita e canta dal loro stucco, dietro il tempo fuggevole.

    Era il Settecento, secolo che tanto hanno affettato e affettano di spregiare perchè incapaci di sentirne la spirituale grazia, la maturanza fervida di vita che ne fa la luminosa estate della storia.                                           Qualcuno, forse la Vernon Lee, ebbe a dire che l'anima di quel secolo può conoscersi davvero solo attraverso la sua musica. E disse bene. Poichè, infatti, il segreto di vita che circola per le smaglianti tele del Tiepolo eper gli aerei stucchi del Serpotta è lo stesso che si chiude fra i numeri del ritmo nelle arie di Niccolò Porpora e di Alessandro Scarlatti, negli alti cantici di benedetto Marcelloe del Pergolesi e del Paisiello: un segreto di misura, di serenità e di equilibrio. Il modus, invero, questa signorile esigenza di un gesto, raffinato dal lungo esercizio e dalla profonda cultura, è l'ideale del secolo; esso porta in ogni cosa e sopratutto nell'arte, alle sovrapposizioni accademiche del neo-classicismo sicchè del più grande neo-classico Antonio Canova, lo Sthendal potè dire non aver egli imitato i greci, ma creato una nuova bellezza. Della quale, ci affrettiamo ad aggiungere noi, la più grande virtù era un naturale ed armonico decoro, un'infinita e calma e uguale luce di serenità.

     Questa fu la felicità toccata in sorte al Settecento, secolo in cui tutta una grande era della storia umana si apprestava al tramonto e nella tranquilla grazia con la quale irradiava gli ultimi raggi del sole pareva divenire eroico il suo presentimento del crepuscolo.

    L'arte ha avuto ragione di fissare in pure ed armoniose forme quella felicità, che è forse il segno della più alta saggezza umana, come gioia che non è follia, oblio, noncuranza della vita, ma piena, serena assoluta consapevolezza di vita, accettazione di essa in tutti i suoi aspetti.

      Una tal gioia guidò la mano dello Stuccatore palermitano e si diffuse per le candide scene  con cui egli decorò le pareti di tante e tante chiese.

   

 



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