Franco Ciminato
martedì 11 agosto 2020
martedì 5 luglio 2011
Pizzuto a Erice, di Antonio Pane, Plumelia n. 2/2011
Antonio Pane
Pizzuto a Erice
Erice è uno dei luoghi privilegiati dell’immaginario pizzutiano. Con Palermo e Castronuovo di Sicilia
forma la triade di città «dilette» onorate nel ‘vestibolo’ di casa dei nonni materni, e dai commossi richiami a questa primaria esperienza distribuiti nella dodicesima e nell’ultima.
Prima che in questa sede e con questo rilievo, il nome di Erice era fuggevolmente comparso nel primo
libro edito di Pizzuto, l’autobiografico protagonista chiama a conforto delle presenti ambasce le ore serene trascorse con il nonno «letterato e poeta (sull’Erice ha la sua statua)». vacanze, era stato poi evocato nel sedicesimo capitolo di l’assistente edile Bibi: «La vista del sottostante mare tutto crespe immobili gli suscitava il ricordo infantile di una villeggiatura trascorsa da solo con la nonna che ogni mattina appena desto trovava inginocchiata dinanzi il letto pronta per lavargli i piedi in una caldaietta di acqua tepida. Gli infilava poi la camicia appena stirata, odorosa e candida. Cara». ripreso quasi alla lettera nel capitolo ericino di lassù»)
mare cresputo immobile») modi preziosi di qual edita mandorla, disserrantisi quasi con verecondia, lievi di gelsomino gaggia»
Si riparano bambole. Se si viene all’edificio narrativo vero e proprio, alle diciassette ‘stanze’ che lo compongono, la quota ericina dell’eccentrica dedica è giustificata dalla seconda, avvinta al «tempo della villeggiatura» che il piccolo Pofi consuma ad Erice, nella Sul ponte di Avignone (firmato con lo pseudonimo Heis), quando il2 Il luogo, non nominato ma riconoscibile, e sempre associato ai giorni delle Signorina Rosina come pensiero del protagonista,3 Al riconoscimento concorrono sia il «sottostante mare tutto crespe immobili» –Si riparano bambole («il mare pescoso, dalle crespe immobili4 e nella prima lassa di Testamento, Nonna,5 anch’essa consacrata a Erice («ingiù dallo scosceso il6 – che la scena del pediluvio mattutino e della successiva vestizione, riscritta neiNonna: «forzargli dolce gambe addentro tepido lavacro […]; incignargli camicia, bianche7
La «partenza dei nonni zie e Pofi per Erice», che dà avvio alla parte ericina di
che partenze quelle erano vere spedizioni. Un numero incalcolabile di bauli, valigie, casse e cassette precedevano »),
La Russa; le «zie», le loro due figlie nubili Beatrice e Stella; Pofi, il piccolo Antonino Pizzuto (familiarmente
Bebè o Baby), primogenito di Maria, la figlia andata in sposa a Giovanni Pizzuto, avvocato e proprietario
di terre in Castronuovo di Sicilia (la Castro del romanzo, dove i genitori e gli altri due figli, Ugo e Sefina/
Serafina, staranno «fino alla vendemmia»). Come nel
Si riparano bambole («Più8 ha riscontro in una lettera di Pizzuto alla figlia Giovanna, che rimemora «la vigilia della nostra partenza per la villeggiatura a Erice, la casa china di bilici e baulli».9 Il reperto consente di stabilire con certezza lo ‘stato civile’ dei viaggiatori: i «nonni» sono il letterato Ugo Antonio Amico e sua moglie VincenzaPonte di Avignone, Ugo Antonio Amico è qui araldicamente ricordato per la statua collocata nel giardino pubblico («Del nonno c’è colà il mezzobusto al Balio»);10 ma, diversamente dalle sezioni ambientate a Palermo, nella casa dei Quattro Canti, dove la sua figura calamita varie zone del racconto,11 dopo un breve richiamo12 si eclissa, per lasciar posto alla solerte e benigna consorte, subito ritratta quale custode del patrimonio familiare (ugualmente, in Nonna, a Ugo Antonio Amico toccheranno solo il «berrettino perla di villeggiante» e l’«ossignoriddio» che censura la manomissione
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della sua scrivania ad opera della moglie). Ad Erice insomma l’autorità maschile, rappresentata in Palermo
dal nonno paterfamilias, cede a una sorta di matriarcato, al gineceo assorbito fin dall’arrivo da «visite di calor»
a sera»)
levigatura del letto, sbambagiarne, semplice formalità, la stiva, fanticellare per polvere, da pepite, ovunque
probabile isterilendo».
Erice egli potrà impunemente proiettarsi fuori dalle mura domestiche, perpetrare una serie di escursioni che,
animando il racconto, valgono poi a giustificare la celebrazione del luogo, delle sue bellezze monumentali e
paesistiche. Su tali dominanti Pizzuto costruisce la sua sonata ericina, enunciando una serie di motivi, alcuni
dei quali continuerà variamente a declinare in altre pagine, fino alle scritture più tarde.
Il primo di essi – fonte, per il nipote di Ugo Antonio Amico, di legittimo orgoglio civico
dei «selciati meravigliosamente tersi, come cristallo, quali le abitatrici a piano li mantenevano in gara spazzando ogni fuscellino appena cadutovi»,
13 e opere femminili («Il gran bagaglio era aperto, la moltitudine di vestiti stirata, riposta, tutte stanche14 che non a caso avranno campo anche in Nonna: «Nelle or fioche libere stanze affannoso assesto,15 Questo diverso governo configura per Pofi un agio impensabile ai Quattro Canti: a16 – è la vista17 leggermente variato nell’abbrivio di Nonna: «terse come stoviglie le strade spirali».18 Altra ragione di vanto municipale procurava la banda di 34 suonatori, fornita (per merito del sindaco Luciano Spada che incontreremo più avanti) di «strumenti d’ottima fabbrica» e di «un’elegante uniforme militare, appositamente lavorata a Milano»,19 delle cui prestazioni, ambulanti e sedentarie, Pizzuto dà una rappresentazione vivace, se non convulsa,20 rinnovata, con analogo piglio, in Nonna: «I rintocchi di quarta ora, passi solitari a violar silenzio dopo mezzogiorno più greve nel generale sopore, ed apparecchiarsi in suo luogo la banda, ordine quadrilungo, bocche contro ance, piatti per collidere, pronta mazzuola da picchiare grancassa. Fattisi gli sguardi furibondi e universalmente centripeti, levata mano calando per fendente, esplodevano ottoni con gran sternuto, cavernoso pelliccio rombo, onde ventrali fremiti cui nel passaggio era d’ala, in ogni zittita alacri i clarini nasardi».21
Al terzo motivo, l’epopea del gioco di carte, si giunge attraverso il raccordo ‘sociologico’ sui due
circoli, dei «civili» e dei «signori» (ossia dei borghesi e dei nobili), che «appena oltre la piazza» (oggi
Umberto I), all’inizio di via Vittorio Emanuele, misurano il pregio dei rispettivi arredi: legno chiaro
contro legno oscuro; «sedie ossute» contro «nere poltrone di zigrino». Tralasciando qui di inseguire posa
per posa la tecnica ‘cinematografica’ adibita alla descrizione di due partite esemplari (l’essoterica di tressette
e l’esoterica di zecchinetta), vi è solo da dire che il personaggio del «notaio» potrebbe effigiare il
«notar Salerno», uno dei maggiorenti ericini che all’epoca riesumata da Pizzuto frequentavano la cerchia
del conte Agostino Sieri-Pepoli,
22 e che l’episodio presterà varie immagini al monografico Carte da giuoco:
23
carburo», il cambiamento di scena in favore dei giochi clandestini
imposte, aria granghignola, rimasti sol i fidi, quel succhiellare», mentre l’agnizione del bambino ‘abusivo’
(«Il cameriere sottovoce dallo spiraglio avvertì che cercavano Pofi. Nessuno si era accorto di lui»)
riduce a un secco «ricercarlo famigli».
Il quarto motivo, che potremmo intitolare ‘I capricci amorosi di Cotilù’, con Pofi nel ruolo di interessato
mezzano, incrocia un’altra testimonianza sull’attendibilità ‘storica’ della nostra narrazione. In una lettera
inedita alla figlia a Giovanna (1° aprile 1965) Pizzuto, rilevando come egli esercitasse una «singolare attrazione in fatto di ruffiani», precisa: «Ma il capolavoro era la Cotilù di Siribambole, che cambiava fidanzato
ogni settimana, mai il fattorino, con pagamento di sigarette e servizio celere, mentre io poi ero innamorato
di lei (io a 12, lei 18 anni): quel racconto è autentico! compresa la chiacchierata poetica in terrazzo, al chiaro
di luna, e profumo di tuberose, che ancora a 72 anni se ci ripenso mi vengono le vertigini».
nel regime breviloquente di questo ‘pezzo’ «l’odore aspro del carburo» diventa «l’acetilene sapida di24 si condensa in un «cauti, suggellate25 si26
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Dodici anni. Quindi Pizzuto, classe 1893, se la sua prodigiosa memoria qui non lo tradisce, elabora
esperienze vissute nei dintorni del 1905. La datazione trova conferma nel testo, laddove l’avvento dei militari
di cui Pofi, avanzando rapido nella carriera di paraninfo, diverrà intrinseco è giustificato con «l’eccidio
di Castelluzzo, un fattaccio oscuro». Noi sappiamo che quell’evento si verificò la sera del 14 settembre
1904, quando a Castelluzzo, borgo del contado di Erice, nei locali della Lega di miglioramento, durante
una riunione di soci per la sottoscrizione di azioni della cooperativa di affittanza collettiva, una pattuglia di
carabinieri guidata dal brigadiere Riffaldi, in circostanze che il conseguente processo non sarebbe riuscito
a chiarire, aprì il fuoco sui lavoratori, provocando due morti e otto feriti (fra i fatti misteriosi, si registrò
l’utilizzazione di un’arma non posseduta dai carabinieri e l’assenza di un ordine esplicito dei superiori).
27
Tornando al «distaccamento di fanteria»,
di ufficiali immortalati da Pizzuto (i tenenti Bisesti, Morasso, Gandolfo, Di Bartolo; il capitano Bertini),
abbiano potuto lasciare qualche traccia, sempre che non siano inventati (come sembrano quelli contigui
del marchese Scaravelli, precipitato in fondo a un burrone, o dei marchesi Panciatichi, ospiti del burbero
maggiore venuto a castigare i suoi sottoposti). Ma di là da questo auspicio, il segmento ha un suo autonomo
rilievo che investe sia la struttura interna del racconto, perché serve a congiungere i fatti di Cotilù con quelli
degli attori allo sbando che tentano di sopravvivere improvvisando alcune recite, sia il versante intertestuale,
dal momento che la vicenda dei poveri guitti figurava nel primo libro di Pizzuto,
ignoto al tempo della pubblicazione di
un cinquantennio, in
28 l’episodio che lo riguarda, collegato come è al resoconto delle realissime infatuazioni amorose di Cotilù, ha un sapore di verità che meriterebbe una verifica: chissà se i nomiSinfonia 1923 (inedito eSi riparano bambole),29 e sarà ulteriormente orchestrata, a distanza diNorvegese.30
Il quattordicesimo capitolo di
essenziali della parabola disegnata in
attrici, abbandonati, nella regione sconosciuta ed ostile, con altri gruppi consimili, dal capocomico che ha
sciolto la compagnia»)
certi attori rimasti incagliati in città per scioglimento di compagnia».
piena estate», l’uso del teatro
gratuitamente il teatro»), si provvede allo stesso modo a pubblicizzare l’evento («I cartelli vengono rapidamente affissi»),
si sentono gettati «quassù»), ed è definita «piccolo borgo di montagna». Infine, i fotogrammi della gioventù
paesana che «si accende per le due povere attrici» si riflettono, con lieve spostamento, nella gag dell’avvocato Adolfino che rende di pubblico dominio le ‘provocazioni’ della «prima donna».
Sinfonia 1923, Cinque attori e due attrici, contiene infatti gli ingredientiSi riparano bambole. Il suo incipit («Sono cinque poveri attori e due31 è quasi identico all’inizio del nostro episodio: «Dalla Porta di Trapani si presentarono32 Anche qui la vicenda si svolge «in33 è una concessione del Comune («Il municipio del capoluogo vicino concede34 l’amministratore, munito di pianta, «dà la caccia agli spettatori», si parla di un «battaglione» che si trova bloccato «al campo»,35 i posti venduti sono pochissimi («Ha potuto vendere sei soli palchi – di cui uno con punto interrogativo – e due poltrone, compresa la sua»),36 lo spettacolo inizia in grave ritardo («Sono quasi le 23 quando i rari spettatori vedono alzarsi il sipario»).37 Inoltre, come Erice, l’anonima cittadina in cui si svolgono le recite è posta in alto (l’amministratore conduce la compagnia «lassù»; gli attori
Norvegese
, composto nell’ottobre 1974, si riannoda sia al testo di Si riparano bambole 38 che a quello di
Sinfonia 1923
contro la platea e il doppio ordine di palchetti [...]. Abbastanza tre quattro passi ove non risparmiarli». Da
entrambi i testi derivano invece le notazioni sulla scarsità di pubblico («qualche dozzina di spettatori»), sul
loro presentarsi in ritardo («farsi ultimi sull’ingresso, qual alle corse coi somari»), sulla umiliante ricerca della
loro adesione («Non certo file allo sportello ma questue») e inoltre la situazione degli attori «incagliati» («l’in-
, ma nell’attacco offre un elemento inedito, soffermandosi sulle piccole dimensioni del palcoscenico: «A calcarne assito in lungo e per largo, dallo scabro fondale insino ribalta, minima l’estensione
Antonio Pane
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“plumelia”
tera compagnia arenatavi»; «che fare per disincagliarsi»); mentre altri particolari si rifanno alla sola
1923
gialla, balbettoso pagì pagì, grinta assorta, e pipetta»), il protagonista di
Sinfonia: l’«Osvaldo di Norvegia»39 in cui si raggruma, con l’aggiunta di una veste alquanto pittoresca («camiciaSpettri che campeggiava nella seconda delle tre recite dei cinque attori e due attrici, pronunciando la celebre battuta «Mamma, dammi il sole!»; il «camerone per tutti e sei» (che riecheggia le «due stanzuccie per tutti e sette»); la sineddoche del misero pasto riservato agli artisti, «la minestrina a tanti pultifagi»,40 eco degli attori «seduti presso la tavola, sulla quale erano i resti della cena»; la «camminata» «per veder fabbricare birra», variazione della passeggiata fuori le mura compiuta dal giovane drammaturgo locale e dal suo mentore (il primo dice «Ci approssimiamo alla fabbrica di ghiaccio di mio padre. Vuol venire fin laggiù? Vi berremo un bicchiere di birra ben gelata»)41, e gli stessi «tubi intriganti», che rimandano lì alle «pareti attraversate, in tutti i sensi, da tubi candidi».42
Partiti da Erice attori e distaccamento, il racconto si volge alla picaresca gita Erice-Trapani-Erice, che
raggiunge nel capoluogo il «giardino pubblico» (verosimilmente la Villa Comunale «Regina Margherita») e
«il grande albergo» (che secondo Alberto Barbata corrisponde all’antico Grand Hôtel di viale Regina Elena),
e quindi, al ritorno, di nuovo il Piano delle Forche («irriconoscibile da quella parte»), per riapprodare alla
dimora dei nonni, dove scattano due istantanee che diverranno emblemi del tempo ericino: i «grappoli d’uva
pendenti dalle travi» che sovrastano la
nella stanzetta da pranzo») e l’aragosta. Entrambi presidieranno
mori nilo aurei» pendono «da imbiancato soffitto a travi», «impergolando» (condòmini di «oblunghi formaggi
» «in capestro», ossia caciocavalli.) Dell’aragosta, che in
trapanese, si celebra prima il diplomatico acquisto da parte della nonna («Or compiaciuta ascoltandolo privilegiante, né mai patteggiatrice, diafani in mosse autonome giù nel cesto articoli antenne filamenti morione
»), poi il trattamento («era l’aragosta riversa entro fondo acquaio, via via fatto ben vivo fuoco, indotto
prudente sale, pur furioso il bollore, qui capofitto tuffata, vita eroicamente contesa, un impeto, altro debole
contro coperchio represso da capovolto mortaio, vinta»), e da ultimo la confezione per l’uso («ecco salparla
ormai tirolese d’orafa catafratta
imbiancato grappoli ghiotti» e poco oltre, subendo la medesima sorte del crostaceo di
«in limpidezza muovervi fatale declino, simili assonnate braccia senili, sue antenne filamentose catafratta
aragosta dannata a quel secolare».
table à manger (già apparsi all’arrivo: «i grappoli costituivano festoniNonna e Il torchietto. In Nonna «grappoliSi riparano bambole gratificava l’esausto reduce43 rinascimentale»). Ugualmente nel Torchietto abbiamo «penduli dal palcoNonna, si vedono44 Un altro fotogramma che ben rappresenta il temps perdu di Erice è il «vasto patio fiorito di convolvoli», con «l’acqua in fondo al pozzo sonoro, lontanissima e piccola quanto una luna» e con la «cisterna»; patio che in Nonna si moltiplica nei «cortili dove minuscole lune l’acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli». Se questa figurazione è figlia del ‘tempo immobile’, della ‘stagione totale’ che riassume il plesso delle villeggiature ericine, le due successive sequenze vi aggiungono il colore ‘storico’, restituiscono vividamente il clima dell’epoca. La prima, sulla distribuzione di cibo ai ‘poveri’, è un dagherrotipo di certa filantropia ottocentesca, che coniugava pietismo e positivismo, cattolicesimo e socialismo. La seconda ci riporta nel verde e nelle vedute del Balio, il giardino pubblico già menzionato per il mezzobusto del nonno e come meta abituale di «riposati passeggiatori». Qui Pizzuto, dipingendo da par suo una compassata partita di croquet (svolta nell’«ora assolata in cui nessun ericino e nessun villeggiante comune vi si recava, l’ora dei patrizi»), ha ancora modo di manifestare la sua ammirazione per le maniere dei nobili (risolte in compostezza e silenzio) e di nominarne uno, il conte Agostino Pepoli, che era stato amico ed estimatore di nonno Ugo (il quale gli aveva solennemente dedicato le sue Elegie ericine).45 Come scrive Vincenzo Adragna, «i Pepoli di Sicilia erano ragguardevole ramo dei
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994, dall’Inghilterra».
è ricordato – dopo la menzione del «castello turrito dov’è il bagno di Venere», ossia del castello normanno
nel cui perimetro tradizionalmente si collocava il tempio di Venere ericina e il cosiddetto pozzo o, come
vuole Pizzuto, bagno di Venere descritto da Eliano, Virgilio e Diodoro, a lungo ritenuto piscina lustrale
per i riti della dea ma forse solo un capiente granaio –
pianure sottostanti», in cui si scorge la torretta circolare (detta «torretta Pepoli») svettante sulla casa che si
era costruita su un terrapieno roccioso sotto il Balio. In una cartolina d’epoca il complesso edilizio è appunto
chiamato «La Rocca del Conte Pepoli in Monte San Giuliano».
il «parlare raro e conciso» dei titolati, Pizzuto introduce un riferimento storico che contraddice il precedente
sulla strage di Castelluzzo (avvenuta, come si è visto, nel 1904). Quando scrive «quel giorno anche in Erice
erano esposte le bandiere a mezz’asta per McKinley», egli allude infatti a William McKinley, presidente
U.S.A. dal 1897, e al suo assassinio da parte di un anarchico, il 14 settembre 1901. La data settembrina,
identica a quella della strage di Castelluzzo, ma anteriore di tre anni, ci dice che il fatto non è probabilmente
inventato (come si è appena visto, dedicando al Conte Pepoli le
la cara consuetudine di rivedersi «in patria nell’autunno»); ma ci conferma altresì che, sebbene puntuali, le
memorie racchiuse nel capitolo ericino di
La fine del soggiorno, con la visita (e l’inconsolabile pianto) di Pofi nell’«appartamento baronale»
(che potrebbe alludere a una delle ville patrizie di Paparella: quella del barone Stabile o quella del barone
Adragna), non esaurisce la musica ericina di
del romanzo. Nel dodicesimo, quando a Pofi poliziotto, sulle tracce di una supposta spia straniera, balena
l’altura adorata: «Domattina va a Trapani. Bisognava rimettersi in viaggio. Trapani, quindi Erice, donde si
vedono due mari, e le isole, Favignana, Levanzo, Marettimo, nelle giornate più limpide anche Pantelleria
e, dicevano, la stessa costa africana. Erice bella, ma anche militare. Bastava portarvi un po’ di cannoni, e si
dominava mezza provincia, sino a Capo Cofano. Certo proprio quella la vera meta, Erice. Tornarvi. Dopo
tanti anni. Cotilù. Incontrarla. Ad averne tempo rivedere poi il Balio, inerpicarsi sulle mura fenicie,
ronchi smaltati di pavidi ciclamini cercare l’ossario squarciato scorto una volta, e non sapeva se in sogno».
Pepoli di Bologna, una fra le più illustri famiglie italiane, che gli storici bolognesi facevano provenire, fin dal46 Il colto aristocratico, intorno a cui si riuniva la migliore società ericina del tempo,47 per la «rocca», «alta e tonda contro il velluto delle48 A quest’altezza, modellando i parchi gesti eElegie ericine, Ugo Antonio Amico ricordaSi riparano bambole spaziano su almeno due differenti stagioni.Si riparano bambole, che torna a risuonare in altri due capitoli49 fra i50
Questo rapido excursus, che plana leggero sul paesaggio del cuore, si può sovrapporre, confermando fra l’altro la quasi chimerica rivendicazione sulla visibilità della costa africana, a una pagina di Vincenzo Adragna,
ispirata al «panorama fascinoso e raro, che dall’immagine silenziosa di chiese, palazzi e case della città che si
estende ai suoi piedi [
Mar Tirreno e dalla pianura di Trapani fino a Castelvetrano ed alle montagne di Alcamo e di Corleone ed
oltre, più lontano ancora, al bosco della Ficuzza e talvolta alle isole di Ustica a nord-est e di Pantelleria a sud
ovest e di Palermo a sud ovest [
giunge] al mare e alla pianura dominata dalla cima del monte, dal Canale di Sicilia alsic] ed anche – ma raramente – al Capo Bon, punta estrema dell’Africa».51
Il nome di Erice ricorre un’ultima volta nelle battute conclusive del romanzo, quando Pofi, prima di
segregarsi per sempre in un ospizio, enumera uno ad uno i luoghi della sua giovinezza, sperando di poterli
un giorno rivedere: «E un altro sabato alla bimare Erice, così tersa da esserne resa azzurra. Che proverà
una fanciulla al buio nella cameretta ascoltando la serenata? D’in cima ai suoi ottant’anni il dottore Spada
attribuiva a sé l’omaggio e schiusa la persiana grazie ragazzi, ora andiamocene un pochino a letto».
oltre all’aggettivo «bimare» – che sarà reimpiegato nell’incipit di
di cui il brano sopra citato fornisce, si può dire, la parafrasi («donde si vedono due mari») – è da registrare
l’epifania di un altro personaggio non romanzesco. Il gioviale «dottore Spada» dovrebbe infatti suscitare il
52 Qui,Berretta Rossa («D’insù a picco, bimare») e
Antonio Pane
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dottor Luciano Spada, sindaco di Erice dal 6 gennaio 1873 al 6 febbraio 1877, promotore, oltre che del già
illustrato equipaggiamento per la banda, di varie opere altrettanto meritorie, e tutte percorse dalla narrazione
pizzutiana: «un teatro “degno davvero di un palazzo reale”; il ripristino delle vie cittadine; la sistemazione
dei giardini del Balio, con “i viali arboreggianti, le siepi adorne e fiori d’ogni ragione [...] graziose statuette,
tra cui, come antica regina del luogo, l’immagine di Venere sull’andare di quella che il divino Canova scolpì
a Pitti in Firenze”».
dove lo esortava proprio all’impegno civico («Svegliala, o tu, che ’l puoi | Dal silenzio de’ secoli; se giace | In
un sonno fallace, | Questa che madre fu d’incliti eroi»),
suo libro, la cara amicizia e il «nobile cuore, che prepone ad ogni affetto quello della patria».
53 Anch’egli era stato buon amico del nonno di Pizzuto, che compose per lui una poesia54 e ne celebrò ancora, nell’introduzione a un altro55
Dopo l’exploit di
in
l’intera lassa inaugurale,
Si riparano bambole, il tema ericino riconquista la ribalta, a distanza di nove anni,Testamento, occupandone (sull’onda del memorabile incipit «Erice, odoranti di salvia i suoi paradisi»)Nonna, che Gianfranco Contini volle «stupendissima» e «perfecta».56
La nuova ‘monografia’, la cui seconda parte è presidiata dalla dolce e attivissima nonna,
prima alcuni motivi enunciati in
diverse. Fra questi ultimi abbiamo già segnalato la visione aerea del mare ‘congelato’, la pulizia delle strade,
il cortile, i festoni di uva, la banda, l’aragosta. Quanto ai motivi inediti, dobbiamo intanto dire che i «secondari
usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli maestri» designano con esattezza l’abitazione
ericina dei nonni di Pizzuto, la cui parte bassa dà effettivamente «sulla ‘strada grande’ (la centrale via Vittorio
Emanuele»),
si presenta sfrontatamente alla messa («Farsi l’ora del vespro in duomo, discendere per lo sdrucciolo acciottolato giù dove è disparte, dai secoli, racchiuse negli uniformi gran manti, servetta appresso, pur spedite
che fossero ecco vi occupava già il miglior posto, intenta a rosario, labbra elettriche, comoda segregazione
dintorno, la scandalosa. Infino vietato nominarla, Lionora») è invece la riscrittura, piuttosto abbreviata e
con lieve anamorfosi del nome, di un episodio di
57 recupera nellaSi riparano bambole, adeguandoli a frequenze stilistiche sensibililmente58 mentre la superiore riesce sulla via Fontana (la «candida viuzza»). La scena della reproba cheCosì (libro ancora inedito al tempo della pubblicazione di
Testamento
Comunque sia, l’ambientazione vespertina prepara il percorso notturno entro il quale Pizzuto può prima
situare la nebbia di Erice, definita «nana» perché «arriva appena al ginocchio»,
), che in tal modo denuncerebbe un’origine ericina: «Seralmente era pei maligni uno spasso condurre alla funzione del Vespro qualche cittadino giunto di fresco. Il vecchio duomo si ergeva sull’acciottolato in riquadri invaso d’erba a ciuffetti. Fatti i consunti gradini la navata, tutta sfarzose luci, appariva deserta in mezzo dove si scorgeva un grossolano inginocchiatoio e gremita di fedeli attorno. Le donne, presa l’acqua santa, traevano dopo genuflessione indistruttibili seggiole dalla catasta recandosele a ingrossare le file delle devote sul margine del gran spazio vuoto, e nel tragitto si avea cura di mantenersene distanti. Gli scialli di seta nera, ampi da coprire le teste, si alternavano coi vestiti lussuosi delle villeggianti. Prima che Eleonora comparisse ve n’era già il presentimento. Ella entrava, non è a dire come ignorata dalle astanti, entrava un po’ dimessa un po’ altera in atto di ignorarle a sua volta, e percorsa l’interminabile distanza fino all’inginocchiatoio vi si prostrava reclinando la testa, e non rimaneva visibile di lei che il lucido della capigliatura sotto il velo, spartita a metà, la quale con gli occhi e con le narici era quanto attirava gli uomini mentre nel giardino pubblico, a notte alta, ella di cespuglio in cespuglio tendeva loro le sue insidie bianca per la luna».59 Se il «disparte, dai secoli» di Nonna si giustifica con il fatto che il duomo di Erice sorge in posizione decentrata (in fondo alla via Chiaromonte e prossimo alla porta di Trapani) e che risale ai primi decenni del Trecento (antichità condivisa con il «vecchio duomo» di Così), nel «giardino pubblico» del testo germinale, teatro dello scandalo, si può viceversa intravedere il Balio.60 e quindi convocare la nonna,
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colta in un gesto di sollecitudine («Ella ricopriva di coltri declinandogli pervicaci rotule il nipotello») che sembra magicamente estendersi a tutto l’edificio: «casa riposava calda nel menta montanino». Così guadagnato il proscenio, la nonna vi rimarrà fino all’amorevole congedo, conduttrice di ricordi dalla cui sfera, intima e familiare, esala il profumo del buon tempo antico. Ecco allora il caffè fatto di poco caffè e molta cicoria, e aromatizzato con cannella («ella incicoriava modico fernambuco, dandovi corpo e cannella»
Entro queste inverificabili coordinate viaggia un frammento che può invece usufruire di un riscontro
esterno alla narrazione, riconducibile al medesimo giro di anni di cui si è discorso. Alcune delle «elegie
materne frequenti nella lettera quotidiana di avvicinamento»
bambole
Questo secondo, lusinghiero dono non basta tuttavia ad esaurire la materia ericina, che, sfiorata in
da gioco
1974 all’8 giugno 1975. Cinque delle cinquanta pagelle di cui consta si riportano in vario modo al paese
amato. Le prime quattro (
Norvegese
Il titolo di
61), alloggiato in una «cuccuma dal romanico aspetto» (ossia dalla mole plasticamente massiccia, come le torri romaniche);62 ecco, proveniente da Trapani, il pescivendolo pie’ veloce («appariva scalzo fornito il pesciaiuolo corsa rupi balze l’impervia costa da secca alla popolosa vetta, così presto che saraghi palamite sgombri vi pervenivano sbadigliando»).63 (già adombrate in un passo di Si riparano, dove della mamma del protagonista si dice «Ella scriveva bei versi. La lontananza da Pofi le ispirava piccole elegie»)64 si leggono infatti nella plaquette di Maria Pizzuto Amico Canti dell’anima.65 Fra varie poesie rivolte ai familiari, una, Uccellino cattivo!, è appositamente dedicata «A Baby mio lontano»; un’altra,Torni quell’ora!, «Al Babbo mio in Erice». Ugualmente veridica, sebbene non altrimenti accertabile, appare l’immagine che suggella Nonna («Mai sempre, ancor dormiente, in sorrisi»):66 anch’essa troverà eco nella prima ‘tavola’ del dittico di pagelle sulla nonna: «tutta insorgevoli sorrisi».Carte(trentesima delle Ultime), trova ancora ampio terreno in Penultime, libro redatto dal 27 agostoI. Berretta Rossa; II. Il torchietto; IV. Piano delle Forche; V. FSO) danno vita a un breve ciclo, significativamente posto in posizione incipitaria, mentre, come abbiamo visto, la quinta (XVIII.) rispolvera il motivo del teatro.Berretta Rossa è quasi sicuramente tratto da una delle storie raccolte in Leggende popolari ericine per Ugo Antonio Amico, vale a dire Peppazzo e la vendetta di Berretta Rossa,67 e serve, come tanti titoli pizzutiani, a ‘intonare’ (al modo, direbbe Contini, della «nomenclatura musicale»)68 l’argomento della paginetta, che ruota intorno al carattere fantasmatico della realtà,69 riflesso da un lato nella ghost story di Peppazzo (dove imperversa l’animaccia di un soldato morto impiccato) e dall’altro nel luogo remoto e quasi leggendario che fa da sfondo. Che esso sia Erice lo dice nell’incipit, come si è già osservato, l’aggettivo «bimare» («D’insù a picco, bimare, per velluti stupendi»), e lo confermano nel prosieguo del testo («fra opposito promontorio e la falce industre confronte, entro insieme da fiaba, tal distesa purificata, sassànide, tutta ville villaggi opere da trent’anni in guerra») due chiose pizzutiane: quella che identifica la «falce industre» con Trapani70 (il «promontorio» che le sta di fronte sarà allora il monte Cofano); e quella che legge la «guerra» come l’«eterno conflitto tra Erice e Custonaci a chi possedere questa Madonna».71 L’«eterno conflitto» è senz’altro l’annosa controversia generata dal ‘trasporto’ della miracolosa immagine della madonna dal sacrario rurale dove è custodita al duomo di Erice (il quadro era portato per una metà del percorso, dal santuario di Custonaci fino all’Arco del Cavaliere, dai custonacesi, e per l’altra dagli ericini): a volte l’icona rimaneva a Erice più del tempo stabilito, provocando veri e propri scontri fra le popolazioni, che cessarono solo quando, nel 1936, dopo un grave danneggiamento dell’opera, la Soprindendenza alle Belle Arti di Roma ne sancì l’inamovibilità. 72 Più arduo invece risalire alla fonte del tratto seguente: «l’inaccessibile pedaggiere quatto finestra su forzoso passaggio ivi, nel dischiudersi o rinserrata, nera secco sonora. Mano etiope73 avida sul deposto obolo». Giusta l’esplicazione immediata («nient’altro leggende, visionari, se pizie»), il misterioso «pedaggie- re» potrebbe forse rientrare
Antonio Pane
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“plumelia
nella tipologia delle storie ricercate dal nonno di Pizzuto; oppure, per l’insistenzaIl torchietto (l’uva pendente dal soffitto, la «chicchera longobarda», il «mare pescoso », l’aragosta) abbiamo già parlato. Si aggiunga ora che la situazione del «piccino» che dorme con gli anziani parenti («il russo parentale»; «eclissar l’anziano lenzuola»), cercando ogni pretesto per riaccendere il lume, non è incompatibile con la logistica delle vacanze del piccolo Pizzuto, di cui potrebbe essere un vivo riverbero. Piano delle Forche muove dagli incendi che periodicamente devastano la zona boschiva tra Erice e Trapani: «Pinete. Arse. Altre; ancora strutte». Pizzuto ne aveva una volta parlato con Lucio Piccolo. In74 E Pizzuto: «Mi ha addolorato molto la notizia – che ignoravo – dell’incendio75 Dopo la panoramica sul territorio76 per77 verso la «fervorosa metropoli», «tutta traffici», variante della «falce industre»Berretta Rossa.78 Qui l’obiettivo ci guida «entro comitale museo» (che un altro autocommento precisa79 eNonna), il palchetto della musica («assito per banda»),80 il Balio,81 il maniero normanno («castelloPiano delle Forche, Pizzuto sembra dirci che la sua Erice coincide con il tempo ‘veloce’ delle ferie, contrapposto al tempo ‘lento’ distillato nelle aule scolastiche («A lor termine le vacanze, e daccapo scuola, eterno altr’anno»), oggetto della sezione conclusiva.FSO, brano che riguarda Erice solo lateralmente, perché ripercorreSi riparano bambole (che82 dalla stazione di Lolli fino a Trapani (quando83 che aveva prima attivato e poi gestito (fino al
{ 123 }
***
1
Si tratta di sequenze non numerate (e prive al loro interno di capoversi), segnalate semplicemente da un salto di pagina.
2
2004, p. 230.
Antonio Pizzuto, Sul ponte di Avignone, a cura di Antonio Pane, postfazione di Rosalba Galvagno, Firenze, Polistampa,
3
97.
Antonio Pizzuto, Signorina Rosina, a cura di Antonio Pane, postfazione di Denis Ferraris, Firenze, Polistampa, 2004, p.
4
edizione del libro risale al 1960, quando apparve nella «Collana Narratori» di Lerici). Il «mare pescoso» ritorna in un’altra
pagina ericina,
Pizzuto
Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, a cura di Gualberto Alvino, Palermo, Sellerio («La memoria»), 2001, p. 53 (la primaIl torchietto (in Antonio Pizzuto, Ultime e Penultime, edizione critica di Gualberto Alvino, Nota per l’ultimodi Gianfranco Contini, Napoli, Cronopio [«tessere»], 2001, p. 162).
5
Antonio Pizzuto, Testamento, commento di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 2009, pp. 9-12.
6
Testamento, cit., p. 9.
7
Testamento, cit., p. 11.
8
Si riparano bambole, cit., p. 41.
9
1991, p. 36 (lettera del 24 marzo 1964).
Antonio Pizzuto, Due lettere alla figlia Giovanna, a cura di Antonio Pane, «Arenaria», a. VIII, n. 21, settembre-dicembre
10
Si riparano bambole, cit., p. 41.
11
presenza del nonno letterato.
Lo stesso accade in Testamento, dove le lasse ambientate nella medesima dimora (Idillio e Albo) contemplano sempre la
12
Si riparano bambole, cit., p. 42: «Per conto suo il nonno non cambiava che scrivania e scaffali, ma l’inchiostro era quello, eguale la vita, ininterrotto il colloquio ideale con i grandi, l’incanto contemplativo della pura bellezza».
13
La locuzione ricorre in Ravenna: «Né erano i tre ancora rincasati che ella, quasi per visita di calore, stava già loro appresso» (vd. Antonio Pizzuto, Ravenna, a cura di Antonio Pane, postfazione di Giancarlo Alfano, con una testimonianza di Andrea Camilleri, Firenze, Polistampa, 2002, p. 157).
14
Si riparano bambole, cit., p. 42.
15
Testamento, cit., pp. 9-10.
16
Sentimento che traspare in una lettera a Madeleine Santschi (20 settembre 1973): «Carissima Malou, | Grazie della cartolina da Erice, ma se io lo avessi saputo in tempo, avrei potuto darvi indicazioni che vi avrebbero permesso di identificare la casa di cui si parla in “Nonna”, e perfino la statua di mio Nonno che si trova al Balio, il giardino pubblico con quello stupendo panorama, degno dei migliori della Svizzera!». Vd. Antonio Pizzuto - Alberto Mondadori, L’ultima è sempre la migliore. Carteggio (1967-1975) con le lettere di Antonio Pizzuto a Madeleine Santschi e Pierre Graff (1968-1976), a cura di Antonio Pane, introduzione di Claudio Vela, Firenze, Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2007, p. 211.
17
Si riparano bambole, cit., p. 42.
18
Testamento, cit., p. 9.
19
Vd. Vincenzo Perugini, Genesi di un paese. Valderice, Associazione Turistica Pro Loco Città di Valderice, 2006, p. 31.
20
Si riparano bambole, cit., pp. 42-43: «Scoccate le quattro dopo mezzogiorno, la banda comunale faceva un giro di sveglia per le strade deserte, sempre rintonando la stessa marcia militare, di stile schubertiano ma con scoppietti. Uno schiudersi di persiane verdi. Ognuno lasciato il letto andava a lavarsi la faccia. Mezz’oretta dopo, per le vie già toccate dalla prima ombra spuntavano riposati passeggiatori diretti al Balio. Sul tardi le domeniche e il giovedì la banda occupava l’angolo della Loggia. Terminato il pezzo ecco i musicofili intenti al cambio del cartello, già letto prima che apparisse nel quadro. Ponchielli, La danza delle ore. Qui, al momento di attaccare il presto, la concitazione del capobanda era massima. Egli si incurvava come un fantino, il viso stravolto, incitando tutti. Presto, non c’è tempo da perdere, parea dicesse, e sferzava l’aria, fermi intorno intorno i più appassionati in assedio le bocche aperte, mentre gli indifferenti discorrevano passeggiando dietro la folla, pronti ad alzare la voce per intendersi appena levatasi qualche raffica di fortissimo».
21
Testamento, cit., p. 9.
22
Vd. Vincenzo Adragna, Monte San Giuliano cento e più anni fa, «Annali selinuntini», 1, 1990, p. 35.
23
Ultime e Penultime, cit., pp. 81-82.
24
Si riparano bambole, cit., pp. 44-45: «Le porte vennero chiuse, la gran tavola fu portata avanti, alla chiacchiera succedette il bisbiglio, una cura di non far rumore. I più ratti presero posto, altri andarono nelle due salette per sedie che importavano sollevate a mezz’aria. Ognuno depose innanzi a sé il suo gruzzolo. Già Ciccino tramescolava le carte, lucide e nuove. Un tre,
Antonio Pane
{ 124 }
“plumelia”
un sette; egli rivoltò il mazzo ed apparve un re. Il tre e il sette vennero coperti di poste. Ciccino ne contrappose altrettante,
mucchietto per mucchietto. In un silenzio ben altro le sue dita sottili si accinsero a discoprire che c’era sotto il re rimovendolo impercettibilmente di sulle carte. Del bianco. Ancora del bianco. Del bianco ancora. Del bianco. Un filino nero.
Un cinque. Il re, liberato, rimase di rincontro alle prime due carte. Altre monete di argento aspettarono vicino al sette di
accogliervi il cinque in carrozza. Ma apparve un altro cinque. Ciccino le trasse a sé. Venne fuori un sei».
25
Si riparano bambole, cit., p. 45.
26
Andarono per la consegna in terrazzo. Aspettami, gli disse. Il terrazzo era latteo sotto la luna. Giungeva un canto, E lucevan
le stelle. L’aria odorava di tuberose, le tegole parevano d’argento, ogni quarto d’ora dalla Loggia i rintocchi dell’orologio si
diffondevano lenti. Cotilù riapparve. Vestiva di bianco. Una fosforescenza le avvolgeva la capigliatura nera. I suoi passi erano silenziosi. Io pure, le disse Pofi, voglio bene a una. Davvero? Davvero. Come le splendevano gli occhi. E la conosco io? Sì. E chi sarà? Pofi non rispose. Le sorrideva. E chi sarà mai? Egli continuava a sorriderle. Be’, ella concluse, domani ti darò una risposta da portargli. E mentre la contemplava sorridendole sempre, chinatasi gli infilò nel taschino le sigarette».
Trascrivo il passo parallelo di Si riparano bambole (cit., pp. 47-48): «La sera seguente Pofi recò a lei un messaggio di lui.
27
Traggo queste notizie da Gabriella Scolaro, Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Terrelibere.org, Capo d’Orlando, 1997, pp. 95-96. L’avvenimento, che ebbe vastissima eco, provocando uno sciopero generale nazionale, ispirò a Vito Mercadante il poemetto Castelluzzo, dedicato a Mario Rapisardi e Nicola Barbato (vd. Rosa Faragi – Marco Scalabrino – Salvatore Vaiana, Vito Mercadante, dimensione storica e valore poetico, edizione a cura del Comune di Prizzi, 2009), ed è menzionato in Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia dal 1860 al 1950, Roma, Savelli, 1976, pp. 175, 179-80 (che però annovera dieci feriti).
28
Le sue esercitazioni si svolgono in quel Piano delle Forche che, come vedremo, dà il titolo alla quarta delle Penultime (Ultime e Penultime, cit., pp. 164-166).
29
Antonio Pizzuto, Sinfonia 1923, a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea («La grande»), 2005.
30
In Ultime e Penultime, cit., pp. 195-196.
31
Sinfonia 1923, cit., p. 143.
32
Si riparano bambole, cit., p. 49.
33
Nel palazzo che lo ospitava, in piazza Umberto I (la pizzutiana piazza della Loggia), sono oggi insediati la Biblioteca Carvini e il Museo civico.
34
In Si riparano bambole sono unificati nel «cartello scritto a mano in grossi caratteri».
35
In Si riparano bambole gli ufficiali arriveranno durante il secondo atto, reduci da una «manovra».
36
Sinfonia 1923, cit., pp. 145-146.
37
Ivi, p. 146.
38
Il libro, redatto fra il 1956 e il 1960, apparve per la prima volta nel 1960 da Lerici («Collana Narratori»).
39
In Si riparano bambole il repertorio della rabberciata compagnia comprende Fedora, Amleto e Kean.
40
Da pultiphagus, ‘mangiatore di minestra’.
41
Sinfonia 1923, p. 157.
42
Ivi, p. 158.
43
(«Quaderni della Fondazione Piazzolla»), 1996, pp. 68-69: «entrovi in simposio catafratte aragoste».
Per l’immagine, vd. Antonio Pizzuto, Giunte e virgole, edizione critica di Gualberto Alvino, Roma, Fondazione Piazzolla
44
Una chiosa pizzutiana a questa voce spiega: «come un rogo l’acqua bollente per esse» (vd. Ultime e Penultime, cit., p. 162).
45
«All’eccellente signore ed amico | Conte Agostino Pepoli | Barone di Culcari | dei Baroni di San Teodoro, ec.»: «Offro a Voi
questo volumetto, o signore ed amico carissimo, perché io non so pensare alla mia città nativa senza riveder Voi, sempre
amoroso di quanto è gloria dell’Erice nostra: splendido nel rifar l’antiche torri; nel metter giardini; nello aprir via di passeggio a pubblico diletto; nel sovvenire largamente l’onesta povertà nei giorni tribolati; e, pago di Voi e dell’opera Vostra, fuggire le lodi, e non lamentare ingrate dimenticanze. | Solito rivedervi in patria nell’autunno, e passar con Voi qualch’ora, Vi ho avuto vicino sempre sempre nello scrivere questi versi: perché tornando la mente con affetto alle cose vedute e impresse nel core, esse, vestendo imagine viva, Vi han richiamato così, che, quasi direi, Voi primo ne udiste i suoni, benché lontano; e Vi vedevo a me accanto, com’uomo che benevolmente ascolta».
Apparse a Firenze, da Barbera, nel 1892. Trascrivo il testo della dedica (scritta «Di Palermo, a 30 maggio 1892»)
46
Vd. Vincenzo Adragna, Un mecenate del tempo antico: il conte Agostino Pepoli, «La “Fardelliana”», XII, 1993, p. 27.
47
Il pozzo è stato recentemente identificato nella parte bassa del monastero del Santissimo Salvatore. Vd. Claudio Paterna, Il mito di Venere riaffiora a Erice, «La Repubblica – Palermo», 3 gennaio 2009, p. X.
{ 125 }
48
Vd. Giuseppe Messina, Immagini di Erice nelle cartoline dal 1896 al 1996, Trapani, Graficamoderna, 1996.
49
Fenicie, per le lettere dell’alfabeto fenicio scoperte nel 1882, in alcune pietre delle antiche mura, da Agostino Pepoli, Antonio Salinas e Bartolomeo Lagumina. Vd. Vincenzo Adragna, Un mecenate del tempo antico: il conte Agostino Pepoli, cit., p. 40.
50
Si riparano bambole, cit., pp. 196-197.
51
Vd. Vincenzo Adragna, Un mecenate del tempo antico: il conte Agostino Pepoli, cit., p. 34.
52
Si riparano bambole, cit., p. 296.
53
Vd. Vincenzo Perugini, Genesi di un paese: Valderice, cit., p. 31 (basato sulle notizie date da Luciano Spada nel suo Rendiconto della azienda comunale di Monte S. Giuliano negli anni: 1873-1876, Tip. Genovese, Monte S. Giuliano, 1903).
54
La poesia, di cui abbiamo trascritto le battute iniziali, figura in Ugo Antonio Amico, Versi, Palermo, Amenta, 1873 (citata in Giuseppe Salvo-Cozzo, Le poesie di Ugo Antonio Amico, «Il Propugnatore», vol. VII, parte 1a, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1874).
55
Vd. Leggende popolari ericine per Ugo Antonio Amico, Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1886, p. V (Due parole ai lettori). Luciano Spada fu anche uno dei più caldi sostenitori delle iniziative del conte Pepoli, che «gli donava, da lui stesso modellato, un mezzo busto che ne ritraeva l’immagine robusta» (vd. Vincenzo Adragna, Un mecenate del tempo antico: il conte Agostino Pepoli, cit., p. 35).
56
Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2000, pp. 135, 138.
Vd. Antonio Pizzuto - Gianfranco Contini, Coup de foudre. Lettere (1963-1976), a cura di Gualberto Alvino, Firenze,
57
la nonna già al lavoro»), Antonio Pizzuto,
2010, p. 284 («Avvezza in levarsi a ore da preti, e per governare») e 85 («Ferri alla porta, vacille difilate verso riposi, ava
ultima, in camere stambugini e ridotti»).
Questo aspetto domina tutte le raffigurazioni della nonna. Si veda Si riparano bambole, cit., p. 28 («Di primo mattino […]Pagelle, edizione critica commentata di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa,
58
Il suo prospetto principale contiene una lapide che ricorda il sacrificio del fratello della nonna di Pizzuto, il medico Rocco
La Russa, garibaldino perito negli scontri di Ponte dell’Ammiraglio.
Vd. Vincenzo Adragna, Monte San Giuliano cento e più anni fa, cit., pp. 45-46. Nella casa, oggi occupata da un ristorante, sopravvivono ancora il cortile (che ha perso il rivestimento di rampicanti visibile fino a qualche anno addietro) e la cisterna.
59
Antonio Pizzuto, Così, a cura di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 1998, p. 67 (cap. X).
60
Vd. Antonio Pizzuto, Lettere a Margaret Contini (1964-1976), a cura di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2000, p. 185 (lettera del 15 luglio 1966).
61
di cannella».
Vd. Antonio Pizzuto, Sinfonia, Milano, Il Saggiatore («Opere di Pizzuto»), 1974, p. 29: «Il caffè, delizioso, tutto fragrante
62
L’immagine sarà replicata, sempre in un contesto ericino, nella «chicchera longobarda» di Il torchietto (Ultime e Penultime, cit., p.161).
63
La «zia piccola» che le declama è probabilmente da identificare con Stella Amico, che in Si riparano bambole (p. 82) è sorpresa a leggere «Ella non rispose e altri libri consimili» (Ella non rispose è un romanzo di Matilde Serao).
64
Si riparano bambole, cit., p. 62. La mamma di Pofi le scrive a Castro (Castronuovo di Sicilia), dove soggiorna con il marito e gli altri due figli.
65
Offerta per le nozze D’Alia-Pitré, Palermo, Tipografia C. Sciarrino già Puccio, 1904.
66
Pagelle, cit., p. 284 (Come se).
67
Il copricapo ricorre anche nel titolo Giufà e la berretta rossa, in Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, Torino, Einaudi («Gli struzzi»), 1977, vol. II, pp. 784-785.
68
Vd. Gianfranco Contini, La vera novità ha nome Pizzuto, «Corriere della Sera», a. 89, n. 202, 6 settembre 1964, p. 11.
69
Definita nell’esplicit come calco di calco: fatta in modo da trarre «immagine d’immagine, specie da specie».
70
«industre» per la presenza del porto e delle saline.
«Falce» per la forma falcata della penisola su cui sorge la città (il suo nome greco, drépanon, vuol dire appunto ‘falce’);
71
Vd. Ultime e Penultime, cit., p. 255 (Le note di Pizzuto a Penultime).
72
Vd. il sito web dell’Associazione Turistica Pro Loco Custonaci.
73
Cioè, come vuole la chiosa di Pizzuto, «nera» (Ultime e Penultime, cit., p. 255).
74
Antonio Pizzuto - Lucio Piccolo, L’oboe e il clarino. Carteggio 1965-1969, a cura di Alessandro Fo e Antonio Pane, Milano, Libri Scheiwiller («Poesia»), 2002, p. 149 (lettera del 19 settembre 1968).
75
Ivi, p. 151 (lettera del 26 settembre 1968).
Antonio Pane
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“plumelia”
76
La cittadina è caratterizzata per le «teicurgie alpestri ertevi alfabetanti», ossia, spiega Pizzuto, le mura erette dai Fenici «fondatori degli alfabeti» (vd. Ultime e Penultime, cit., p. 255).
77
vetta».
Vd. Testamento, cit., p. 10: «appariva scalzo fornito il pesciaiuolo corsa rupi balze l’impervia costa da secca alla popolosa
78
Pizzuto comunque chiarisce che si tratta di Trapani (vd. Ultime e Penultime, cit., p. 255).
79
Precisamente VI, I 2: «Quando Ilio cadde, un drappello di Troiani fuggitivi, sgusciati dalla rete della flotta Achea, approdarono alle spiagge della Sicilia e fissarono la propria sede a fianco dei Sicani. I due popoli furono chiamati con il nome comune di Elimi, e i loro centri urbani furono noti come Erice e Segesta».
80
Il dettaglio manca in Si riparano bambole, dove la banda si limitava a occupare «l’angolo della Loggia», e in Nonna, che ne registrava solo l’«apparecchiarsi in suo luogo».
81
Il luogo – detto «resinifero» perché, spiega una chiosa, «coperto da stupenda pineta (con statua in bronzo del nonno)» – dà il destro a una facile divagazione omerica su Balio e Xanto, i cavalli di Achille che nel diciassettesimo dell’Iliade piangono la morte di Patroclo.
82
Pizzuto vi allude dicendo «Oggi da far in due orette, tutt’altro allora».83 Pizzuto gli attribuisce la bizzarra consuetudine di annullare partenze per attendere amici ritardatari.
sulla mano nera, più semplicemente richiamare un qualche episodio di estorsione mafiosa (Alberto Barbata
ipotizza due diversi riferimenti: o all’antico dazio ericino situato presso la Porta di Trapani; o alla ruota del
convento di clausura di S. Carlo, attraverso la quale le monache vendevano i loro prodotti).
Delle tangenze ericine di
un giorno di settembre (proprio il mese delle vacanze ericine) il poeta aveva chiesto: «Hai sentito che s’è
bruciato il bosco di Erice?».
nel bosco di Erice. Kennst du das Land? Ce ne vorrà perché rinasca!».
disastrato, la cinepresa pizzutiana si sposta sul monte dove sorge Erice («avendolo promontorio»),
discendere «di balza in balza»
di
essere quello fondato dal conte Pepoli nel 1905) fino al ‘pezzo forte’ del piano terra: l’«umana affettatrice
condenne», ossia la ghigliottina adoperata a Trapani in epoca borbonica e il suo indispensabile cesto («ben
a vista di sul soppalco paniera»). Da Trapani un nuovo movimento di camera risale «al vertice», sulla cima
dove sta Erice (chiamata «urbe tucididea» perché, precisa una chiosa, «citata da Tucidide nel VI libro»),
ne ripercorre la nota topografia: la spianata della Loggia («suo centro pianeggiante»), il teatro, il palazzo del
Comune («civica sede»), l’orologio con i suoi «rintocchi ogni quarto d’ora» (replica dei «rintocchi di quarta
ora» di
ventoso») e il Bagno di Venere, da cui si ammira lo stupendo scenario circostante («qual vista»). L’unica
novità di questa rivisitazione è il «caffeuccio» dove splende il miraggio della «rosea gramolata aquitrina»,
cioè, si può credere, una apprezzata granulosa alla fragola. Al termine del rapido giro, così esaurendo la parte ericina di
A suggello di questo ciclo troviamo
al contrario il tragitto Trapani-Palermo, arieggiato nel finale del capitolo ericino di
fulminava Pofi «in treno, passando le saline piramidi»). Pizzuto fornisce qui un pezzo di storia ferroviaria
siciliana, riesumando un lungo viaggio notturno (sei ore circa)
si scorgono «via via col chiaro le saline piramidi») su un convoglio delle Ferrovie Sicule Occidentali, la
società presieduta dal francese Nicola Lescanne Perdoux,
1907, quando l’esercizio era passato alle Ferrovie dello Stato) quella interminabile tratta realizzata per scopi
prevalentemente commerciali, servendo soprattutto a trasportare il pesce di Mazara e il sale di Trapani: e il
testo puntualmente registra sia la scarsità di viaggiatori («vetture vuote a aggressori non troppi o gran che
furiosi») che la presenza, sul «carro postale» (scompartimento di cui quei treni erano effettivamente dotati),
fra «sacchi e cassette ovunque», di «quatti piccoli panieri, arcuto il manico, tutti placidi pesci azzurri». La
scena del «ragazzotto» che si inchiostra il polso con il «bollo» dell’impiegato postale cui è stato affidato fa
pensare che anche in questo caso Pizzuto tratti un ricordo della propria adolescenza.
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